L'intervista a Survival&Reporter prima del Nanga-Parbat rivela il lato anarchico e outsider del 42enne, quasi alpinista romantico
Ascoltare la voce di Daniele Nardi pensando che, in qualche modo misterioso, invece che dallo schermo del computer o dal display dello smartphone essa arrivi da quella parete ripidissima, da quella giacca a vento da alta quota che era di un rosso intenso nelle foto prese al campo Base ed appare invece così pallido nelle immagini sgranate che dal campo base stesso sono state scattate attraverso il telescopio, permettendo di determinare la sorte di Daniele e del suo compagno di cordata Tom Ballard.
L’effetto, intenso e profondo, viene dall’ascolto del “collage” di messaggi audio che l’alpinista laziale aveva inviato nei mesi scorsi alla rivista “Survival&Reporter”: tredici minuti di pensieri liberi, di autocoscienza, tredici minuti strappati lo scorso autunno alla preparazione fisica, psicologica e logistica proprio in vista della spedizione in Pakistan. Sono tredici minuti appassionati e carichi di motivazioni, della voglia di trasmettere una passione ed uno stile di vita prima ancora che di scalata.
Non aspettatevi immagini straordinarie di montagne e ghiacciai e l’accompagnamento di una colonna ricca di pathos. Perché sono accompagnati da una sola immagine, da un primo piano sorridente di Daniele, con le rocce e la neve sullo sfondo. Ma non ne servirebbero altre, perché - ascoltando - è come se fosse lui a parlarti, a raccontarti quello che la “giacca rossa” non può più raccontare.
Colpisce la strada percorsa in quei... tredici minuti da Daniele: che non significa solo la distanza coperta tra la pianura Pontina delle sue origini e l’Himalaya oppure il Kashmir, che non è solo il dislivello coperto lungo una via alpinistica. Dal Velino al Gran Sasso, dal Monte Bianco alle Grandes Jorasses, fino all’Everest ed al Nanga Parbat. All’origine di tutto, una famiglia di pastori, i dolci rilievi dell’Appennino, la richiesta di un ragazzino di quattordici anni (respinta dai genitori) di trascorrere una notte da solo sui Monti Lepini, l’avventura sulle prime semplici paretine, insieme ad un compagno, “inventandosi” manovre precarie e nodi di sicurezza... da autodidatta, fino alla possibilità di frequentare un vero corso di arrampicata ed al passaggio decisivo dall’arrampicata stessa all’alpinismo vero e proprio, fino a quello di spedizione sulle montagne più alte del pianeta.
Sempre, imprescindibilmente, in stile alpino: leggero, responsabile, etico: l’unico concepibile per Daniele, fedele alla traccia lasciata dai pionieri, quasi ossessionato dal restare fedele all’alpinismo dei pionieri. Una specie di giuramento che, fatte le debite proporzioni, a noi ricorda quello di Walter Bonatti. Minuto dopo minuto, messaggio dopo messaggio, colpisce la serietà e la gradualità dell’approccio di Nardi. Ciò che a molti, a quasi tutti noi, è forse sfuggito nelle scorse settimane, occupandoci della sua vicenda, interessandoci alla sua sorte ed a quella di Tom Ballard.
Un alpinista romantico, in un certo senso anarchico ed un outsider. Per scelta, viene adesso da dire ascoltando quello che possiamo considerare il suo testamento spirituale. Partire da da un’ispirazione, dall’istinto, dalla propria inclinazione più profonda. Lasciare che la scintilla scocchi e che la fiamma si alzi. Ma poi studiare, prepararsi, procedere per gradi, tentare e, fino ad affrontare l’impossibile, se così vogliamo continuare a considerare lo Sperone Mummery d’inverno,se con quell’enorme scoglio vogliamo intendere una missione al limite delle possibilità umane, almeno di quelle attuali. Secondo la personalissima identificazione proposta da Daniele tra spiritualità dell’uomo e gradualità dell’approccio all’attività alpinistica.
In un certo senso la voce ed i pensieri di Daniele, questi tredici minuti che scendono dallo Sperone, che si incanalano nella valle dell’Indo e viaggiano a lungo nei deserti dell’Asia centrale, fino a depositarsi idealmente sui placidi millecinquecentotrentasei metri del Semprevisa (il punto culminante dei suoi Monti Lepini) rappresentano l’anello mancante, o più propriamente la corda di sicurezza che ci consente di superare il crepaccio scavato tra la diffidenza (forse sarebbe meglio dire la presa di distanza) di alcuni a proposito di Daniele e le sue motivazioni interiori: un vuoto misterioso che non dobbiamo a tutti i costi avere la pretesa di colmare perché lì dentro sosta adesso l’anima di Daniele. Adagiata in posizione precaria tra neve e roccia sul “Mummery” c’è invece solo una giacca d’alta quota, certamente strappata, nemmeno più così rossa e destinata a confondersi con la montagna.