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ALPINISMO

La Patagonia di Eynard: "Abbiamo guardato in su e non c'era più nulla da scalare!"

La giovane promessa dell'alpinismo italiano racconta la sua esperienza sulle montagne della Patagonia cilena

di Stefano Gatti
21 Apr 2025 - 11:00
 © CAI Eagle Team Ufficio Stampa

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La prima edizione del progetto CAI Eagle Team fa ormai parte della storia del Club Alpino Italiano e del bagaglio di esperienze dei suoi sei giovani e promettenti finalisti. Tra di loro, ad ottenere il risultato sportivamente più importante è stato Dario Eynard. Insieme al capospedizione Matteo Della Bordella e al tutor "aggiunto" Mirco Grasso, negli ultimi giorni dello scorso mese di febbraio (e della spedizione stessa!) il venticinquenne aspirante guida bresciano ha portato a termine in Patagonia la via "Gringos Locos" sulla parete nordovest del Cerro Piergiorgio, un itinerario estremo che aspettava da trent'anni il suo completamento. Dopo l'intervista a Della Bordella, pubblichiamo quindi anche la conversazione di Sportmediaset con Dario, come nel caso di MDB relativa sia alla scalata che ha incorniciato la spedizione didattica targata CAI (e dal sodalizio finanziata), sia all'esperienza umana vissuta da Dario sulle montagne "alla fine del mondo" insieme a Camilla, Luca, Alessandra, Giacomo e Marco.

© Facebook Dario Eynard

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SPORTMEDIASET: Dopo tanti sogni, tanta attesa, tu e gli altri ragazzi della prima edizione del progetto CAI Eagle Team alla fine dello scorso mese di gennaio avete messo piede in Patagonia. Com'è stato il primo impatto con le sue montagne?

DARIO: La Patagonia è una terra che ti fa sentire veramente piccolo, ed è un po’ quello che avevo sognato di vivere quando ero qui a casa. Una volta che ti immergi in quei territori ti senti davvero impotente, hai a che fare con distanze molto estese che qui nelle Alpi non siamo abituati a vivere. È un alpinismo ancora selvaggio, difficile trovare nel contesto alpino.

© CAI Eagle Team Ufficio Stampa

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SPORTMEDIASET: Per CAI Eagle Team sono stati giorni belli ma anche difficili. Il meteo ha remato contro, alcuni di voi hanno avuto problemi di salute. A livello di gruppo come siete andati?

DARIO: In generale direi che tutta l’esperienza di CAI Eagle Team è stata estremamente utile per legare come gruppo tra giovani alpinisti. La spedizione in Patagonia è stata il culmine del progetto. Sicuramente convivere per un mese intero con i compagni ti permette di conoscere aspetti caratteriali delle altre persone che difficilmente emergono in contesti più “normali”. Come gruppo, sicuramente abbiamo legato ancora di più. Poi a livello di aspettative e di cosa siamo riusciti a realizzare, è vero che ognuno aveva i suoi obiettivi a livello alpinistico, però quello principale era riuscire a imparare qualcosa da questa spedizione e credo che da questo punto di vista tutti i componenti della squadra abbiano portato a casa molto, a livello di esperienza. Ci sono stati tantissimi imprevisti: due ragazzi della nostra squadra - Giacomo e Marco - hanno partecipato anche a una missione di soccorso sul Fitz Roy. Alla fine si tratta di contesti in cui a livello umano metti da parte l’alpinismo, che a volte comporta anche un po’ di egoismo, e utilizzi le energie per qualcosa di più grande. Questo è stato molto bello.

© Facebook Dario Eynard

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SPORTMEDIASET: C’è qualcuno del gruppo con cui hai legato di più, con cui hai costruito un rapporto più forte?

DARIO: Mi sono trovato molto bene con tutti i componenti della squadra. Sicuramente con il capospedizione Matteo Della Bordella: un’esperienza così intensa nella mia vita non l’avevo mai vissuta a livello alpinistico e il fatto di viverla con lui mi ha legato ancora di più a Matteo. Per quanto riguarda i compagni, avevo già dei legami abbastanza forti con alcuni di loro, ad esempio Giacomo con il quale avevo condiviso una spedizione in Lapponia. Questo legame si è consolidato, tanto che nei prossimi mesi affronteremo insieme una nuova spedizione…

© CAI Eagle Team Ufficio Stampa

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SPORTMEDIASET: Veniamo alla via Gringos Locos sul Cerro Piergiorgio. Che emozione è stata per te aver partecipato a questa cordata e aver portato un risultato così importante?

DARIO: Quando ci siamo messi a tavolino per elaborare i progetti da affrontare in Patagonia, avevamo sul tavolo una serie di opzioni. Alcune con più possibilità di successo, altre meno. Matteo aveva in mente il Cerro Piergiorgio e il completamento di questa via. Quando ha proposto questo progetto, ovviamente ne sono stato entusiasta. La parete mi ha subito affascinato per la sua bellezza e imponenza, che già in fotografia fanno impressione. C’è sempre un mix di emozioni, di paura, di voglia di mettersi alla prova. Però dall’altra parte sai che come compagni di cordata hai alpinisti che hanno un’esperienza di oltre quindici anni in Patagonia. Tutte cose alla fine mi hanno fatto dire: “Ok, dai, voglio buttarmi anch’io in questo progetto”, che aveva però probabilità bassissime di riuscita. Quando siamo arrivati in Patagonia, è stato tutto un alternarsi di entusiasmo ed esitazioni, all'insegna del “No, non ci riusciremo mai”.

© Facebook Dario Eynard

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Però io pensavo che un buon tentativo su questa via sarebbe stato già abbastanza per me. Quindi sono andato lì con la mente serena, siamo arrivati con un meteo davvero pessimo e poche finestre di bel tempo, stavamo anche pensando di ridimensionare i piani. Al primo approccio in Patagonia ho scalato con Camilla, siamo arrivati a cinquanta metri dalla vetta, ho visto dei nuvoloni e abbiamo deciso di tornare indietro. Ho subito capito quanto fosse difficile lì in Patagonia. Poi è passato qualche giorno e abbiamo avuto un’altra finestra di bel tempo, ci sono stati tre giorni buoni per poter scalare e abbiamo comunque deciso di andare a vedere questa parete del Piergiorgio. Mi ricordo il giorno in cui siamo entrati e abbiamo percorso tutta la valle del Rio Eléctrico. Ricordo prima di aver visto le pareti del Domo Blanco, che erano già incredibili.

© CAI Eagle Team Ufficio Stampa

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Poi vedi la cresta della cima del Piergiorgio e poi ancora pian piano tutta la parete e ti senti davvero come "schiacciato". Lì è tornata un po’ la paura, però alla fine cerchi di avere un approccio razionale, ti ripeti che devi ragionare passo per passo senza guardare troppo all’insieme, perché ti può spaventare. Così siamo andati alla base della parete e in questi tre giorni abbiamo scalato Matteo Della Bordella e Mirco Grasso ed io. Nei primi tre giorni siamo riusciti a scalare quasi metà parete e in quella finestra c’è stato molto ottimismo, perché siamo usciti consapevoli del fatto che più di così non potevamo fare. Si trattava di una scalata impegnativa, ma siamo riusciti a gestirla e forse a quel punto ci siamo resi conto che il progetto era fattibile. Siamo tornati a El Chaltén con molto ottimismo. Dopo qualche giorno si è presentata un’altra finestra di bel tempo, appena a ridosso della partenza per l’Italia. Allora siamo tornati al campo base della montagna, abbiamo ripercorso la mezza parete con le corde fisse che avevamo fissato nella prima finestra e l’approccio è stato quello di dormire in parete per tre giorni. Anche lì c’è stato un mix di emozioni e alti e bassi, perché nel momento in cui l’abbiamo rivista la parete era piena di ghiaccio, avevamo la sensazione che fosse troppo “sporca” e non si potesse scalare. Invece poi con il sole si è ripulita da sola e in fretta.

© Facebook Dario Eynard

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SPORTMEDIASET: E siete così arrivati alla fase decisiva del vostro tentativo di vetta in "zona Cesarini".

DARIO: Abbiamo sempre ragionato passo per passo e durante il primo giorno di scalata inizio io ad arrampicare e ad un certo punto mi ritrovo di fronte una colata d’acqua, perché il ghiaccio aveva iniziato a sciogliersi. Quello è stato un altro momento in cui ci siamo guardati in faccia e abbiamo detto che forse non ce l’avremmo fatta. Abbiamo cercato delle alternative, ma l’unica scelta era aspettare. Abbiamo dormito una notte in parete, poi siamo ripartiti molto presto e abbiamo raggiunto l’altezza massima che era stata già raggiunta da Giordani e Maspes nel 1995. Ci siamo guardati di nuovo in faccia, perché si prospettava un peggioramento del meteo. Abbiamo deciso di lasciare il materiale da bivacco e di chiudere direttamente la questione. Gli ultimi tiri della via sono toccati di nuovo a me: è stato abbastanza complicato perché all’interno delle fessure c’era sempre del ghiaccio, considerando anche il freddo, il buio e le raffiche di vento. Ci abbiamo messo un po’ di tempo, ma alla fine siamo riusciti ad arrivare in cima che erano sostanzialmente le tre di notte. Ho recuperato Matteo e Mirco ed è stato un po’ strano il momento della vetta. Me l'ero immaginato in tutt'altro modo!

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Da casa, mi aspettavo il momento della vetta e di vedere dall’alto tutte le cime intorno. Invece… niente di tutto questo! Siamo arrivati su nel pieno della notte, era una giornata di luna nuova quindi nel nero più totale. Ci siamo resi conto di essere arrivati in cima perché guardando su non c’era più nulla da scalare! Quindi guardo Matteo e Mirco, ci abbracciamo, riusciamo al volo a fare una foto e poi il nostro primo pensiero è stato quello di iniziare a scendere, perché sarebbe arrivato il brutto tempo, insieme alla stanchezza. Quindi iniziamo subito a scendere, ritorniamo al punto in cui avevamo lasciato il materiale da bivacco, dormiamo due ore e poi il giorno seguente scendiamo per tutta la parete e la smontiamo. È stata una giornata molto intensa, alla fine abbiamo fatto ventitré ore filate di attività: da quando abbiamo dormito alla dormita successiva… di due ore!

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SPORTMEDIASET: Ci sono differenze sostanziali tra le montagne alle quali eri abituato e quelle della Patagonia?

DARIO: In Patagonia è un’arrampicata su granito, che qui sulle Alpi può essere un po’ simile a quella del Monte Bianco, però è completamente diversa su mille aspetti. Soprattutto penso agli aspetti logistici. Qui sulle Alpi non siamo abituati a ripercorrere a piedi le vallate glaciali, che invece lì sono presenti. La parete del Piergiorgio dista tipo venticinque chilometri da dove si lascia la strada. Lì si passa sostanzialmente una giornata solo per attraversare queste vallate, prima di arrivare alla montagna vera e propria. Quindi a livello logistico questo complica un po’ tutte le uscite. Poi il progetto che abbiamo scelto è atipico anche per la Patagonia, perché lì ci sono tre gruppi principali: Fitz Roy, Cerro Torre e Piergiorgio. I primi due Fitz Roy sono diventate le icone della Patagonia, per diversi motivi: sono guglie affascinanti, si vedono anche dalle strade, sono presenti diverse fessure e quindi si possono fare delle linee logiche di salita. Il Piergiorgio invece è atipico perché per poterlo vedere devi percorrere almeno una ventina di chilometri a piedi. Insomma, rimane sempre un po’ nascosto, non è troppo considerato rispetto alle altre due montagne e soprattutto non ci sono linee logiche da salire. Guardi la parete ed è tutta una placca liscia, la prima impressione è quella di una parete impossibile.

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Ti rendi conto dell’enorme intuito che hanno avuto Maspes e Giordani nel 1995, nel pensare di salire in quel punto. Quando vedi la parete bagnata, che cola acqua, capisci anche che quella è forse l’unica o comunque una delle pochissime linee fattibili. È una sensazione che provi anche man mano che stai salendo: tiro per tiro, ogni volta, ti sembra di avere davanti una placca impossibile, ma poi man mano che sali trovi sempre delle piccole placche o qualcosa che ti aiuta a salire. A livello di parete in sé, magari non è la più alta, ma non ho mai salito una parete così alta e omogeneamente difficile. Ad esempio, la Marmolada ha una prima metà difficile e una seconda più classica. La particolarità del Piergiorgio è che hai davanti mille metri di parete, novecento delle quali davvero difficili… E questo la rende davvero unica!

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DARIO EYNARD

Nato il 29 marzo 2000 e residente a Bergamo, Dario Eynard ha iniziato a frequentare la montagna da bambino, grazie al padre. Affascinato dall'alpinismo e dai suoi protagonisti, a sedici anni ha iniziato a dedicarsi all’arrampicata sportiva e successivamente ha frequentato il corso di alpinismo A1 al CAI di Nembro.  Dopo aver sperimentato autonomamente con amici, ha trovato compagni come Marco Balduzzi e Gabriel Buda, con i quali condivide la passione per l'alpinismo classico.  Attualmente è studente di Ingegneria per l'Ambiente e il Territorio al Politecnico di Milano e corsista presso il Collegio Guide Alpine Lombardia, puntando a conseguire entrambi i titoli.   

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