Esattamente 74 anni fa viene creata la Baa, che nel 1949 darà vita alla lega di basket più spettacolare del mondo
Nella storia statunitense il 6 giugno non è una data qualsiasi. Lo sbarco in Normandia sta lì a dimostrarlo. Ma due anni dopo il D-Day, nel 1946, c'è un altro avvenimento destinato a fare la storia. Un evento che nulla c'entra con la guerra ma conserva la sua importanza: non c'è un'Europa da liberare ma un mondo da ricostruire, anche esportando l'identità americana nel mondo. Nasce così, il 6 giugno 1946, la Baa (Basketball Association of America), antenata di quella che diverrà la Nba (National Basketball Association), la lega di basket più spettacolare del mondo.
Il contesto è l'Hotel Commodore di New York. Qui Max Kase, giornalista sportivo del “New York Journal”, si incontra con Walter Brown, Al Sutphin, Arthur Morse e Ned Irish, proprietari rispettivamente delle più grandi arene di Boston, Cleveland, Chicago e, ovviamente, del Madison Square Garden. L'obiettivo è creare una lega professionistica di basket che parta dalla disponibilità delle arene delle grandi città per poi raggiungere una dimensione nazionale: sono tempi in cui l'hockey è più redditizio della palla a spicchi, ma con la Baa viene posto il primo mattoncino del fenomeno che unirà sport e marketing a livelli impensabili. La Baa comprende all'inizio 11 squadre e apre i battenti in Canada, a Toronto, dove i locali Huskies affrontano i New York Knickerboxers (così sono ancora chiamati i Knicks): è la prima partita ufficiale del dopoguerra, vinta da New York per 68-66. Tre anni più tardi, esattamente il 3 agosto 1949, la lega si fonde con la Nbl (National Basketball League), generando finalmente la Nba, la sigla professionistica che passo dopo passo diventerà un marchio inconfondibile dello sport mondiale.
Nel 1954 sono rimaste solo tre franchigie della “prima ora” e, per non rischiare che il progetto fallisca subito, la Nba decide di cambiare radicalmente il gioco: viene introdotta la regola dei 24 secondi per concludere l'azione offensiva, via libera anche al limite massimo di falli di squadra prima dell'esaurimento del bonus e dei tiri liberi avversari. Il basket Usa aumenta i ritmi, cancella le perdite di tempo, diventa più televisivo e attraente per le future generazioni. Per tutte e per tutti, perché dal 1950 cade il tabù degli afroamericani: “Chuck” Cooper dei Boston Celtics è il primo nero della Nba. Inutile sottolineare l'importanza degli atleti di colore nella storia del gioco, più interessante notare come i vari Bill Russell, Wilt Chamberlain, Kareem Abdul-Jabbar, Oscar Robertson e tutti i più famosi atleti di colore contribuiscano a riscattare la comunità nera, afflitta da secoli di schiavismo e ancora in lotta per i diritti civili durante tutti gli anni Sessanta. Sono giocatori leggendari, soprattutto i primi tre: Russell detiene il record di titoli vinti (11 in 13 stagioni), Chamberlain è mister 100 punti, mentre Abdul-Jabbar è ancora oggi il miglior realizzatore Nba grazie all'invenzione del movimento offensivo più immarcabile di sempre, il gancio-cielo. Il monopolio di Boston, durato fino alla fine degli anni Sessanta, si trasforma lentamente in un duopolio con i Los Angeles Lakers: gradiscono le televisioni, affamate di storie, di prodotti vendibili e di rivalità.
Storica quella tra le franchigie, nuova quella tra Larry Bird e Magic Johnson, che sostituiscono “Doctor J” Julius Erving come uomini-copertina della lega. Sullo sfondo una nuova ondata di campioni: Isiah Thomas, James Worthy, Dominique Wilkins, Patrick Ewing, Charles Barkley, Karl Malone, John Stockton, Scottie Pippen, Dennis Rodman, Hakeem Olajuwon e poi la stella più luminosa del firmamento, Michael Jordan, che trascinerà i Chicago Bulls al “Repeat 3-peat”, cioè a vincere per due volte tre titoli consecutivi (1991, 1992, 1993, 1996, 1997, 1998). È con MJ che il prodotto Nba, già realtà mondiale alla fine degli anni Settanta, vola nella stratosfera fino ad abbattere ufficialmente, grazie al Dream Team di Barcellona '92, il tabù del professionismo ai Giochi Olimpici. Il resto è storia recente: Phil Jackson, coach dei Bulls di Jordan, va a vincere anche con i Lakers di Kobe Bryant e Shaquille O'Neal, si affermano gli Spurs di Gregg Popovich, mentre nasce la stella di LeBron James, che sta cercando di riportare il titolo proprio allo Staples Center. Il 2019-20 sarà un anno particolarissimo: interrotta a causa della pandemia, la stagione riprenderà il 31 luglio, mentre l'ipotetica gara-7 delle Finals si disputerà il 12 ottobre.
Si ricomincerà, ovviamente a porte chiuse, all'Espn Wide World of Sports Complex di Disney World, vicino a Orlando: sono invitate a partecipare a questa “bolla” nella canicola della Florida 22 franchigie, cioè le otto migliori per Conference più le sei squadre che hanno chances di agguantare un posto ai playoff. Otto squadre sono già a casa (tra cui i Warriors di Curry e Thompson, che si preparano a un 2020-21 di fuoco con una scelta pesante al Draft), raggiungeranno invece Orlando i giocatori italiani Danilo Gallinari, Marco Belinelli e Nicolò Melli, oltre a Sergio Scariolo, assistente coach di Nick Nurse ai Toronto Raptors campioni in carica. Si disputeranno 88 partite di regular season (otto per squadra), più gli eventuali spareggi per determinare le ottave delle due Conference. Poi i playoff più strani di sempre: senza pubblico, ma - si spera - con la medesima sublimazione cestistica.