Juve-Inter del 1998 il momento più alto e più basso di una carriera che è stata bella ma poteva diventare meravigliosa
di Enzo Palladini
“Ciao Enzo. Entra pure in campo, ho voglia di fare due chiacchiere con te”. Frase banale se si trattasse di due vecchi amici, frase che arriva dritta al cuore quando gli sguardi si incontrano direttamente per la prima volta. Addirittura prima della classica stretta di mano che va in scena quando ci si presenta. Sarre, Valle d’Aosta, luglio 1997. Gigi Simoni aveva appena finito il suo primo allenamento stagionale. Era già un signore, un signore vero, con i capelli grigi e tanta esperienza alle spalle. Almeno questa era l’apparenza. Nel fondo dell’anima era un bambino che si era appena svegliato la mattina di Natale. Gli avevano dato l’Inter, altro che coronamento di una carriera. Gli avevano dato in mano Ronaldo, il Fenomeno. Un’esplosione di felicità della quale qualche mese prima non poteva nemmeno sfiorare il presentimento.
Veniva da un’annata prima positiva poi drammatica alla guida del Napoli. Cacciato. Non per motivi tecnici, non perché ci si aspettasse da lui qualcosa che non riusciva a dare. Messo alla porta perché non era riuscito a mantenere il segreto del suo accordo con l’Inter per la stagione seguente. O forse non era stato nemmeno lui, erano stati bravi i cronisti a scoprirlo, o forse era stato imprudente Moratti a lasciarselo scappare. Era andata così, ma tutto fa curriculum. Decisione accettata da signore, ci mancherebbe.
L’Inter, dunque. Un picco apparentemente inaccessibile dopo una lunghissima carriera, cominciata nel 1955, giovanili della Fiorentina, continuata giocando a centrocampo nel Mantova, nel Napoli, nel Torino, un anno nella Juventus (11 partite), nel Brescia e nel Genoa. Poi la panchina, subito quella del suo grande amore giovanile, il Genoa, addirittura occupata tre volte in tre diversi periodi, poi Brescia, Pisa, Lazio, Empoli, Cosenza, Carrarese, il bellissimo quadriennio alla Cremonese con il presidente Domenico Luzzara e il direttore sportivo Erminio Favalli, un lavoro certosino per trasformare normali giocatori da serie B in potenziali affari di mercato. Un quadriennio che riportò Simoni, la sua serietà, la sua saggezza agli onori della cronaca, che convinse il Napoli a dargli quella che sembrava una clamorosa chance. Finita come abbiamo visto, ma proprio citando un detto napoletano, spesso quando si chiude una porta si apre un portone.
Forse addirittura un portale, uno di quei portali che arricchiscono le cattedrali. Allenare l’Inter è un po’ come costruire la Sagrada Familia: non è un’impresa da tutti. Simoni la affrontò da subito con la sua signorilità e il suo equilibrio. Giocava il suo calcio, quello che conosceva. Grande attenzione in difesa, recupero palla, possibilmente al terzo passaggio una verticalizzazione decisiva. Quell’estate Walter Zenga con una delle sue battute da applausi disse: “Simoni con l’Inter può adottare un solo schema: palla a Ronaldo e tutti ad abbracciarlo”. Un piccolo paradosso, forse nemmeno un paradosso. Con il Fenomeno come punto di riferimento, quello era l’unico modo per sfruttarne le caratteristiche al cento per cento. Simoni è stato uno degli ultimi allenatori a utilizzare il libero, non perché lo ritenesse indispensabile nella sua concezione del calcio, ma perché aveva a disposizione un Bergomi trentaquattrenne e ancora integro, quello era il modo migliore per farlo sentire ancora capitano (infatti lo Zio si guadagnò così la convocazione di Cesare Maldini per il Mondiale del 1998). L’Inter del 1997-98 era completamente trasformata rispetto alla passata stagione, aveva una decina di potenziali titolari nuovi che l’allenatore riuscì a far sentire tutti importanti, si inventò Ganz tornante per dargli una possibilità prima di lanciare Moriero verso il suo anno migliore in assoluto, rivalutò Aron Winter che sembrava un giocatore finito, convincendolo a un ruolo di sacrificio sulle mezze punte avversarie.
L’Inter di Simoni era forgiata dunque a immagine e somiglianza del suo allenatore. Realista, ma anche consapevole di avere in attacco un potenziale senza limiti evidenti. Dal punto di vista estetico forse non giocava bene, ma vinceva. Eccome se vinceva. Un girone d’andata condotto da protagonista, una grandissima vittoria sulla Juventus il 4 gennaio 1998, con una volata di Ronaldo e assist facile facile per Djorkaeff, 1-0 e mezzo scudetto in mano. Poi un gennaio difficile, qualche infortunio, qualche punto buttato via prima di ripartire in febbraio e marzo, favoritissima per lo scudetto fino a quel macigno che non si è mai spostato dallo stomaco di Simoni, che lo ha sempre angustiato come pochi altri eventi nella vita. Il 26 aprile del 1998, la famosa sfida con la Juve del Delle Alpi, il rigore non fischiato dall’arbitro Ceccarini per il fallo di Iuliano su Ronaldo che volava verso la porta a cento all’ora. L’unico momento in cui il signor Gigi Simoni decise di essere un po’ meno signore pur mantenendo le distanze. A Ceccarini diede del lei anche quando dentro il cuore pulsava una bomba atomica in attesa di esplodere: “Si vergogni”. Ceccarini non si è mai vergognato e a distanza di oltre vent’anni continua a difendere il suo operato. Rivedendo le immagini ognuno può farsi la propria idea, quella dell’arbitro forse è la meno condivisa fuori dal mondo juventino.
Quello scudetto perso, o meglio il modo in cui quello scudetto venne perso, convinse Moratti ad andare avanti così. Il rapporto con Simoni è sempre stato strano. Uno accanto all’altro i due stavano bene, a distanza si mandavano frecciate anche velenose. Moratti voleva un’Inter d’attacco, Simoni preferiva vincere senza rischiare. Posizioni difficilmente conciliabili. La stagione 1998-99 iniziò con un Ronaldo al 30% delle sue possibilità dopo il malore che rischiava di togliergli la finale del Mondiale 1998, con un Roberto Baggio in più e con diversi problemi di assemblaggio. I risultati non arrivavano, anche perché di mezzo c’era la Champions League con un osso come il Real Madrid nel girone. Moratti fremeva, la classifica non era quella che si aspettava. Però scelse il momento più sbagliato.
La mattina del 30 novembre 1998, davanti a un caffè, Gigi Simoni aveva un sorriso rilassato. Coverciano, ore nove. Si assegnava la Panchina d’oro e l’Inter veniva da una settimana positiva: prima la vittoria meravigliosa sul Real Madrid, 3-1 e doppietta di Baggio, nemmeno il tempo di recuperare le energie ed era arrivato il successo in rimonta sulla Salernitana. Sembrava tutto a posto. Coverciano, ore 13, the winner is… Gigi Simoni. La panchina d’oro era sua, l’avevano deciso tutti i suoi colleghi. Emozione alla consegna. “Speriamo che non sia un premio… alla memoria” fu la battuta sul palco. Presentimento pazzesco.
Autostrada Firenze-Milano, la sera ormai scesa, qualche accenno di nebbiolina. A un certo punto arrivò una telefonata da un amico romeno. “Lucescu è partito dieci minuti fa da Bucarest, ha detto ai giornalisti che sta andando a Milano per allenare l’Inter”. Ma va, ma non è possibile. Stop al primo autogrill, telefonata in redazione. Risposta: “Stiamo cercando Sandro Mazzola ma è sempre occupato”. Certo che era occupato. Stava chiamando Simoni per dirgli che la sua storia con l’Inter era finita, che il presidente aveva deciso così e non c’era stato niente da fare.
Negli anni, Moratti si è pubblicamente pentito di quella scelta. Con il suo ex allenatore ha in seguito riallacciato i rapporti, ricevendolo in un paio di occasioni nei suoi uffici di Milano per testimoniargli affetto, confermato in decine di interviste. Ma ormai il guaio era fatto. Però Simoni lontano dal calcio non poteva restare e allora eccolo con la sua umiltà e la sua signorilità alla guida dal Piacenza, poi al Torino, poi un’avventura coraggiosa in Bulgaria con il Cska Sofia. Nel 2002-2003 un altro piccolo capolavoro come la promozione dell’Ancona dalla serie B alla serie A. Poi c’è stato un ritorno al Napoli al posto di Andrea Agostinelli, una salvezza resa inutile dal fallimento del club. Mezza stagione al Siena, un esonero strano prima di ripartire dalla Lucchese. Poi l’esperienza da direttore tecnico al Gubbio e il ruolo da dirigente prima e presidente poi alla Cremonese, che nel 2003 in occasione del centenario l’ha eletto “allenatore del secolo”. Così come il Genoa l’ha inserito nella sua Hall of Fame.
Nel frattempo, c’è stata anche l’esperienza da commentatore televisivo. Stagione 2007-2008, a quell’epoca non aveva una panchina né una scrivania. Era l’opinionista fisso di “Domenica Stadio” la domenica pomeriggio su Italia 1, conduttore Paolo Bargiggia. Esperienza vissuta come tutte le altre della sua vita. Con serietà, impegno, partecipazione ed entusiasmo. Sempre puntuale, attento durante le riunioni di preparazione del programma, scientifico nel guardare con occhio critico le partite che contemporaneamente scorrevano nella stanza dei monitor. Pronto a dare suggerimenti ma anche a raccoglierne. “Andava bene questo intervento? Ho parlato troppo? Si capiva quello che ho detto? Abbiate pazienza, questo lavoro non l’ho mai fatto”. Lo fece bene, molto bene, lasciando in tutto il gruppo di lavoro un’ulteriore traccia della sua signorilità, della sua affabilità.
L’ultimo contatto in ordine di tempo (ultimo contatto diretto e personale) risale all’aprile del 2018. In una bellissima libreria della provincia di Belluno si presentavano due libri: “Simoni di nasce” e “Dimmi chi era Recoba”. Fianco a fianco parlando di cose che vissute parallelamente. L’aspetto fisico era ancora rassicurante, magari il resto un po’ meno. Gigi, bei tempi quando lavoravamo insieme negli studi Mediaset. Sguardo interrogativo. “Scusami sai, ma io non me lo ricordo proprio”. Ahia. Brutto segnale. Non si ricordava di aver lavorato a Italia 1 ma aveva perfettamente in mente quello che gli era successo quel 26 aprile del 1998, con il mancato rigore per il fallo di Iuliano su Ronaldo. Un’ora di meravigliosi racconti, incrociando la maestosità del fenomeno Ronaldo con le perdonabili marachelle di Recoba, il sogno dello scudetto con l’incubo dell’arbitro Ceccarini. Poi una splendida cena nella birreria di Pedavena, qualche sorso anche per lui, con moderazione assoluta. Un abbraccio e tanta commozione ricordando qualcosa che per lui, Gigi Simoni, ha rappresentato nello stesso tempo il momento più alto e più basso di una carriera che è stata bella ma poteva diventare meravigliosa.