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RICORRENZE

Anniversario Mondiale '82: 38 anni fa il trionfo azzurro del Bernabeu

Una vittoria inattesa che scrisse una nuova luminosa pagina del calcio italiano dopo il terremoto del calcioscommesse

di Enzo Palladini
11 Lug 2020 - 12:19

Peccato per chi non c'era. Peccato per chi non era al Santiago Bernabeu o anche solo davanti a uno schermo televisivo l'11 luglio 1982. Peccato davvero. Perché quella sera la Nazionale azzurra guidata da Bearzot non ha "banalmente" conquistato un titolo mondiale, ma ha riscritto la storia calcistica di un Paese sprofondato nella melma del calcioscommesse soltanto due anni prima. Peccato per chi non c'era. Peccato. 

Eroici. Campioni del mondo, campioni del mondo, campioni del mondo. Alza quella coppa, Dino. Brividi. Una sera d’estate dolce e da assaporare fino al mattino dopo, l’Italia completamente paralizzata davanti al televisore, pronta a infiammarsi anche dopo aver sacramentato per il rigore sbagliato da Cabrini, solerte nel riversarsi in strada al fischio finale per lasciarsi impazzire di gioia dopo l’ennesima prodezza di Pablito, l’urlo di Tardelli, la fuga di Altobelli. Uno di quei momenti in cui anche l’ateo più incallito si mette in testa che esiste un dio del calcio e che può determinare una giustizia ineluttabile. Giustizia, sì. Perché l'Italia il Mondiale l'avrebbe meritato anche quattro anni prima, quando però era scritto che dovesse vincerlo l'Argentina. Perché l'Italia del calcio aveva saputo autopunirsi e sradicare le erbacce soltanto due anni prima, alla vigilia di un Europeo giocato in casa e chiuso al quarto posto, con il biblico repulisti seguito al primo calcioscommesse, quello delle manette scattate ai polsi di parecchi giocatori. 

La banale definizione di "titolo inatteso" si adatta certamente più al Mondale 2006 che a quello del 1982. E' sicuramente vero che il tempo stempera i contorni della realtà e magari porta a mitizzare qualcosa di semplicemente bello, ma il Mundial 1982 sfugge a questa regola. Basterebbe interrogare un campione di persone che ha vissuto quei giorni: quasi tutti, se non tutti, concordano sull'unicità dell'evento, lo straordinario alone di leggenda che compare intorno a questa storia. Lo si può intuire rileggendo i nomi di quei giocatori: Zoff, Scirea, Tardelli, Cabrini, soprattutto Paolo Rossi. Gente che emanava carisma, che poteva anche essere reduce da un mese di prestazioni disastrose senza rischiare di perdere il posto. Perché Enzo Bearzot, "il vecio", era un uomo tutto d'un pezzo che i suoi fedelissimi li conduceva in capo al mondo, dalle risaie più sperdute fino alla gloria imperitura. Li sapeva aspettare, li prendeva da parte e li guardava negli occhi, capiva i loro dubbi e le loro paure, sapeva chiarire gli uni e neutralizzare le altre. 

Non doveva finire così. O almeno, tutto lasciava pensare che non dovesse finire così. Fosse stato per l'opinione pubblica, l'Italia quel Mondiale non avrebbe nemmeno dovuto giocarlo. Nei giorni dell'attesa c'era persino voglia di finirla alla svelta in quel ritiro galiziano, in quell’hotel di Pontevedra che gli azzurri chiamavano “il carcere”, ma dove almeno arrivavano un po’ attutite le bordate dei giornali italiani
che invitavano Bearzot a vergognarsi di quello che stava facendo. Eppur qualcosa si muoveva sotto quella cupola di atarassia apparente e incipiente. Proprio lì, a Pontevedra, nacque l'idea di istituire il silenzio stampa, di far parlare solo Dino Zoff con i giornalisti. Zoff era il capitano ma anche il meno loquace di tutti, rispondeva spesso a monosillabi e "invitava" a chiudere lì la formalità appena possibile. Ma al chiuso e nel silenzio, Bearzot stava cementando una squadra che sarebbe esplosa in un crescendo rossiniano, studiava ogni mossa di Paolo Rossi fino al punto di capire che il fantasma delle prime partite sarebbe diventato un giocatore in grado di vincere il Pallone d'oro

Come in tutte le favole che si rispettino, c'entra il fato e c'entra la fortuna. C'entra soprattutto nella prima parte del torneo, in quelle esibizioni tristi del girone eliminatorio, lo 0-0 contro la Polonia, l'1-1 contro il Perù e poi l'ulteriore 1-1 contro il Camerun, con il gol di Mbida che fece seguito al vantaggio di Ciccio Graziani. Un turno passato quasi per caso, stessi punti e stessa differenza reti del Camerun, ma un gol segnato in più, due contro uno. Una guerra tra poveri vinta per puro caso e non per strategia. Ed erano in tanti a pensare che quasi quasi sarebbe stato meglio fermarsi lì, dire basta a quella sofferenza. Invece primo turno passato, silenzio stampa sempre in corso, minimo sindacale raggiunto. Grazie e arrivederci. Il girone seguente a tre: Italia, Brasile, Argentina. Come dire due giganti e la bambina. Ma la storia d’Italia – non solo quella sportiva – dice che da una montagna di macerie può nascere un capolavoro dell’architettura. Ecco così il capolavoro contro l’Argentina di un giovane ma già fenomenale Maradona, fermato con le cattive da Claudio Gentile. Gol di Cabrini e Tardelli. Poi la leggendaria giornata della sfida al Brasile, la resurrezione di Paolo Rossi, quel 3-2 con la tripletta di Pablito che poi ci ha persino scritto un libro, “Ho fatto piangere il Brasile”. 

Passato quell'ostacolo, non poteva esserci nessuno in grado di arginare quel ciclone azzurro, ormai consapevole delle proprie possibilità e del tremendo potenziale a disposizione. In semifinale quasi una formalità contro la Polonia priva del suo asso Zibì Boniek, ancora doppietta di Paolo Rossi, E poi la finale, quella finale mai in discussione davvero, contro una Germania di giganti totalmente ridimensionati. Una vittoria mai in discussione nonostante lo 0-0 del primo tempo con il rigore sbagliato da Cabrini. Era un'Italia senza limiti e con dei ricambi di lusso, con Ciccio Graziani fuori uso entrava Altobelli e andava a segnare il terzo gol azzurro dopo l'ennesima perla di Pablito e l'urlo di Tardelli. Si otrebbe andare avanti per ore a raccontare di quel mese magico, di tutto quelo che ruotava intorno a quella spedizione, dell'esultanza di Sandro Pertini, presidente della Repubblica in carica, della partita a scopone sull'aereo di ritorno tra lo stesso Pertini, Bearzot, Dino Zoff e Franco Causio. Ma nessuna descrizione potrebbe toccare i vertici che le sensazioni di quei momenti riuscirono a raggiungere. Il bello che diventava immenso, il sogno che diventava realtà, l'impossibile reso possibile. 

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