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IL RICORDO

Diego e quella capacità di trasformare tutto in qualcosa di diverso

La sua non era una passione, ma una vera e propria missione

di Enzo Palladini
25 Nov 2020 - 19:42
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La fortuna di guardarlo negli occhi, a mezzo metro di distanza, non l’hanno avuta in molti. Ed è stata una grande fortuna, perché lì, in quello spazio magico che lo circondava, era possibile cogliere la sua vera essenza. In quello sguardo si poteva riconoscere Diego, il ragazzo di Villa Fiorito, che si preoccupava per la sorte dei meno fortunati, che chiamava il suo sponsor per rifornire di scarpe da gioco i ragazzini della Primavera più poveri. Diego, quel ragazzo con la tristezza in fondo agli occhi, aveva rispetto di tutti, anche dei giornalisti che faceva finta di odiare quando lo attaccavano. Forse l’unico per cui si dimenticava di avere rispetto era proprio Maradona, che era una persona diversa da Diego, era un personaggio che qualcuno gli aveva costruito intorno, che era costretto a essere quello che non era.

In campo tutti vedevano Maradona, ma lì dentro c’era Diego. Con quel pallone tra i piedi si divertiva ed era sé stesso, perché sapeva di poter fare qualunque cosa. Non era una passione, ma una missione. Doveva divertirsi, ma soprattutto far divertire. E poi doveva vincere, chiunque fossero i suoi compagni d’avventura. E ha vinto, anche in modi che non si potevano prevedere, anche in posti dove la gente non si sarebbe mai sognata di vincere. Napoli soprattutto. Una città che ha tracce di Maradona ad ogni angolo di strada, in ogni abitazione. In ogni esercizio pubblico. In quelle case, in quelle strade, su quei muri, Maradona non morirà mai.

Chi non c’era, non può capire. Dal 1984 al 1991, Napoli è stata il centro del mondo. Ha fatto versare lacrime di gioia alla sua gente, ha regalato emozioni che nessuno aveva mai nemmeno sognato e nessuno pensa di poter rivivere. Perché vincere è sempre bello, ma vincere contro chi ha dominato nella storia vale doppio. Lo scudetto del 1987, soprattutto. Un titolo vinto con una cavalcata straordinaria, che ha fatto battere i cuori, che ha trasformato la periferia dell’Impero in capitale o addirittura in Eldorado. È una bella lotta tra i due scudetti, bellissimo il primo e bellissimo il secondo del 1990, nonostante le polemiche di quel finale incandescente.

Maradona come Pelè o Maradona meglio di Pelè, come cantava il suo stadio con tutto il cuore. Maradona meglio di Pelè come uomo squadra, come catalizzatore di energie e capacità, come moltiplicatore delle forze altrui. Potevano prendere dieci persone a caso da mettergli intorno: avrebbe vinto. Potevano picchiarlo per novanta minuti consecutivi: avrebbe vinto. Potevano tentare di farlo a pezzi: avrebbe vinto. Perché dentro aveva quel qualcosa che nessuno ha avuto prima di lui e nessuno avrà mai dopo di lui. Perché quando lo si vedeva giocare era facile percepire la sua immensa grandezza, la sua capacità di trasformare tutto in qualcosa di differente. Non ha mai temuto gli avversari, ma non ha mai capito che l’unico in grado di sconfiggere Diego era lo stesso Maradona. O meglio: erano i suoi demoni, le sue

pulsioni irrefrenabili, il suo battito desiderante che anziché spingerlo verso l’amore e la felicità lo spingeva verso il baratro.

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