Il tecnico dell'Inter ha saputo imbrigliare l'armata City e paga solo gli errori sotto porta dei suoi attaccanti
di Bruno Longhi© Getty Images
Difficilmente nelle finali si viene battuti, strapazzati, costretti al ko tecnico. Spesso si viene sconfitti dal risultato, talvolta in distonia con l’andamento della partita o che - come ad Istanbul - rappresenta il premio destinato a chi ha commesso meno errori. Il City ha vinto meritatamente la Champions archiviata con un percorso senza una sola sconfitta, con 3 pareggi e con 32 gol fatti. L’Inter, altrettanto meritevolmente, ha conquistato la medaglia d’argento.
Che non appaga i tifosi integralisti, ma che è il risultato di una stagione europea iniziata con una sconfitta (col Bayern), finita allo stesso modo, ma passata attraverso imprese esaltanti a Barcellona, due volte in Portogallo, nel derby col Milan. Il Manchester City ha ottenuto ciò che la superiorità acclarata dai risultati e dichiarata dagli osservatori di tutto il pianeta le imponeva. A inizio stagione, il suo successo era dato a 3,5. Quello dell’Inter a 50. Numeri che spiegano in maniera efficace che l’impresa, anche senza “I” maiuscola, non l’ha fatta Guardiola, ma Inzaghi. Nei 90 minuti dell’Ataturk, ha saputo addomesticare e ingabbiare i leoni di Manchester fino al gol di Rodri. Quando poi la necessità impellente di riequilibrare il risultato, lo ha costretto a cambiare strategia, la sua squadra ha prodotto ciò che doveva essere sfruttato in maniera decisiva. Non è arrivato il gol. Ma la convinzione di potersela giocare con i più forti del mondo. Ha sbagliato molto, l’Inter. E non solo davanti a Ederson. Troppi errori in fase d’impostazione, tante palle perse in mezzo al campo, dove è emersa la assoluta bravura degli ski-blues nel riposizionarsi velocemente e nel riconquistare il possesso. Ma questa peculiarità degli uomini di Guardiola, non ha impedito all’Inter di creare le premesse per prolungare la partita e di essere degna dell’avversario. Il City ha vinto per la prima volta la coppa dell’ossessione, l’Inter ha pareggiato il conto: tre vittorie e altrettante sconfitte. Ma solo a Istanbul è uscita dal campo con la certezza di non aver avuto ciò che avrebbe potuto meritare. I successi di Vienna, San Siro e Madrid erano sempre arrivati nel pieno rispetto della legge del più forte, mentre le precedenti sconfitte avevano avuto un comun denominatore: l’inattesa superiorità degli sconosciuti scozzesi del Celtic, a Lisbona, e l’inappellabile sentenza della legge di Johann Cruijff a Rotterdam contro l’Ajax. L’Inter ha perso, ma a prescindere dal risultato, vanno riconosciuti alla società , ad Inzaghi, ai giocatori, il merito di aver acceso e alimentato un sogno che pareva impossibile a inizio stagione e che si è spento solo al 95mo minuto della finale dell’Ataturk. Il calcio italiano, che sperava in un clamoroso triplete, si lecca le ferite per le tre sconfitte su tre. Ma se è vero che un giocatore non si giudica da un calcio di rigore, è altrettanto vero che in queste finali europee tutte le nostre vanno assolte per essere state battute sul filo di lana dagli episodi e non dalla superiorità degli avversari: gli errori della Roma dal dischetto, il posizionamento sbagliato della difesa della Fiorentina all’ultimo minuto della gara col West Ham e il colpo di testa troppo centrale di Lukaku alla fine della sfida di Champions.