In carriera ha dato tutto per la Sardegna e la Nazionale. Un sinistro devastante e la bellezza di un dio. Sull'isola ha stabilito il suo habitat perfetto e il suo buen retiro
di Enzo Palladini© ansa
La vita l'ha preso a calci nei denti quasi subito, senza passare dal via, con una violenza ingiustificata e devastante. L'unica reazione poteva essere prendere a calci qualcosa con la stessa iraconda cattiveria. Passava di lì un pallone, e quella è stata la sua vittima ma anche il suo grande amore. Orfano da piccolissimo, tanti anni di collegio a Leggiuno, in provincia di Varese, "Gigiriva", da leggere tutto d’un fiato e senza pausa perché altrimenti non sarebbe la stessa cosa, si è legato mani e piedi alla terra che gli ha dato una dignità, tanta fame, e la qualifica di immortale. La Sardegna, quella vera, quella passionale, quella che parla poco e fa molto.
Bello come un dio, con le spalle spigolose e una forza incredibile nelle gambe. Ma anche nello sguardo. Le donne svenivano ai suoi piedi, avrebbero utilizzato qualunque stratagemma per rientrare nel suo cono visivo. E tanti ragazzi sardi avrebbero perdonato un peccatuccio alle loro madri se avessero scoperto di essere figli del grande Gigi, figli di quella divinità che aveva saputo trasformare una terra arida in un campo fertilissimo, che aveva portato lo scudetto in un posto dove senza di lui sarebbe solo stato ammirato sulle maglie degli altri, una volta all’anno.
Personalità senza limiti e sapienza calcistica oltre l'umano, con la forza di chi ha dovuto spaccare pietre e mangiare pane secco. Un sinistro devastante, un impeto che poteva sfondare reti e spaccare traverse, ma anche la precisione goniometrica che gli permetteva di indirizzare quella potenza sempre nel punto giusto, lontano dalla portata dei portieri. Meglio per loro, perché le cannonate di Riva prese in faccia non garantivano di salvarsi da un gol, mentre producevano con molta probabilità una frattura del setto nasale.
Chiedere ai compagni di squadra quante volte hanno perso un milione di lire accettando la scommessa: Gigi metteva cinque palloni nel cerchio di centrocampo e prometteva di centrare tre volte la traversa. Nella maggior parte dei casi il quarto e il quinto pallone venivano messi nella rete e riportati in magazzino, tre su tre e milione vinto.
Ha detto mille volte no ai ricchi del continente che lo volevano vestire a strisce. Inter, Juventus o Milan. Poteva diventare ricco. Invece ha preferito essere re della sua Sardegna piuttosto che signorotto nel nord Italia. A Cagliari ha stabilito il suo habitat perfetto e il suo buen retiro, lui che non aveva più genitori ha trovato una enorme famiglia a cui fare riferimento per sentirsi amato, ammirato, enormemente coccolato.
Non gli è mai bastata una rete per gloriarsi di una vittoria, non si è mai vantato di aver vinto una partita da solo. Eppure ne aveva tutti i motivi. Si sentiva un primus inter pares quando invece era un primus e basta. Gol bellissimi ne ha segnati tanti, ma per lui un gol si è sempre misurato dall'importanza, non dall'estetica. Quella la lasciava agli altri, a quelli che lo fermavano per la strada e gli facevano i complimenti ricevendone in cambio sempre un mezzo sorriso. Perché lui era fatto così, non esagerava mai. O forse sì, ma lo faceva con il fumo. E qualche volta anche con il sonno, perché il suo vezzo era dormire fino a mezzogiorno e il suo allenatore del Cagliari scudettato, Manlio Scopigno, ogni tanto glielo concedeva, ben sapendo che nessun compagno di squadra avrebbe alzato la mano per chiedere: perché lui e io no? Dai leader dello spogliatoio fino all’ultima riserva, tutti sapevano che quello non era un uomo, era un totem attorno al quale stringersi nei momenti più importanti, perché tanto avrebbe risolto lui i problemi di tutti caricandoseli su quelle due spalle possenti senza emettere un mezzo lamento.
Due i grandi amori acclarati della sua vita, due maglie indossate con orgoglio e con la dedizione più assoluta. Non solo quella del Cagliari, ma anche quella azzurra della Nazionale. Un lungo rapporto, fatto di tante partite e tanti gol, con un record mai battuto dai suoi successori. Quasi un gol a partita, un Mondiale sfiorato, un altro buttato via per qualche scelta sbagliata e tante polemiche inutili. Aveva la maglia numero 11 sulle spalle perché gliela avevano data quando il 9 l’aveva Boninsegna, poi non se n'è mai separato. Nel frattempo era diventato Rombo di Tuono e i registi gli bussavano alla porta chiedendogli di recitare nei loro film. Ma c'erano solo due obiettivi nel mirino di "Gigiriva": tenere il Cagliari nellìèlite del calcio italiano e portare l’Italia sempre più in alto.
Obiettivo centrato in pieno in Sardegna, perché vincere uno scudetto da quelle parti è come vincerne dieci a Milano o a Torino, obiettivo solo parzialmente raggiunto in azzurro, a costo di molti sacrifici e di due infortuni gravi, che gli hanno tagliato la carriera. Perché la vita non ha mai smesso di prenderlo a calci, nemmeno quando non era più bambino.