Il Trap è uno dei signori del calcio, da giocatore come da allenatore. Serie A, Nazionale ed esperienze estere: dovunque è andato ha lasciato un segno
Giovanni Trapattoni compie 80 anni. Se dipendesse da lui, festeggerebbe la ricorrenza seduto su una panchina, per cercare di guidare la sua ennesima squadra alla sua ennesima vittoria. Ma anche per un fenomeno come lui l’età impone di strapazzarsi un po’ meno e allora giusto festeggiare a casa, da nonno affettuoso e papà premuroso, aspettando milioni di auguri attraverso la sua nuova passione, i social network.
Trent’anni fa dicevano che il suo calcio era vecchio. Roba da anni ’60, reminiscenza di Helenio Herrera e Nereo Rocco. L’avevano già messo nella categoria dei pensionandi quando aveva solo 50 anni. Trent’anni fa, in realtà, Giovanni Trapattoni stava vincendo con l’Inter lo scudetto dei record, campionato dominato dall’inizio alla fine, senza se e senza ma. Nella successiva fase della sua vita, il Trap ha vinto lo scudetto in Germania, in Austria e in Portogallo, ha imparato le lingue a modo suo ma sempre riuscendo a farsi capire, ha insegnato calcio a chi pensava di saperne più di lui. Non ha mai mollato, nemmeno quando le critiche sembravano in grado di travolgerlo. Ha fatto tutto, ha visto tutto, ha vinto tutto. E continua a essere uno dei signori del calcio, amato e stimato da tutti, omaggiato in giro per l’Europa.
Super partes, sopra le parti. Una caratteristica che Trapattoni ha scoperto di avere quando è diventato commissario tecnico della Nazionale, il 6 luglio del 2000. Alle spalle aveva il Milan (da giocatore e all’inizio della sua carriera di allenatore), la Juventus, l’Inter, di nuovo la Juventus, il Bayern Monaco, il Cagliari e la Fiorentina. Il Trap è “apolitico”, se ci si passa il termine. Non ha mai allenato a Roma ma ha una moglie romana e in vari momenti della sua vita ha sfiorato la panchina della Roma e quella della Lazio. Quella Nazionale targata Trap aveva coagulato intorno a sé la passione che sembrava persa. I giocatori andavano a Coverciano con grande entusiasmo. Proprio nel giorno del suo insediamento, Silvio Berlusconi lo salutò così: “È un amico e ha giocato nel Milan”. Un catalizzatore di attenzione e di sentimenti.
Il Trap non ha praticamente nemici. Negli anni ’80 e ’90 è stata costruita la sua rivalità con Arrigo Sacchi, ma siamo molto molto lontani dal concetto di “amicizia”. Quando Arrigo e Trap commentavano insieme la Champions League sulle reti Mediaset, era il massimo del piacere professionale trascorrere le serate davanti a uno schermo insieme a loro. Due vecchi amici, altro che nemici. Non si può voler male al Trap, impossibile. Non si può non rimanere affascinati dalla sua sincerità, dal suo modo di fare così educato, così disponibile, ma al tempo stesso così serio e a volte severo. Mai rivolte critiche a un giocatore davanti ai compagni di squadra, eccezion fatta per il famoso sfogo risalente ai tempi del Bayern Monaco (“Strunz! Strunz!”), momento di straordinaria irritazione. Schietto e diretto anche nei rapporti con la stampa. Quando legge qualcosa che non gradisce, può anche affrontare a muso duro l’autore dell’articolo, salvo poi stringergli la mano e amici come prima. Nel 1991, quando aveva già l’accordo per tornare alla Juve pur essendo ancora sotto contratto con l’Inter, un (allora) giovane cronista scrisse che aveva già trovato casa a Torino. Il Trap alla Pinetina vide il cronista in questione a trenta metri di distanza e gli puntò l’indice contro, urlando: “Pensavo che oggi non ti saresti fatto vedere”. Seguì una discussione che però si risolse nel migliore dei modi. Pochi giorni dopo finse di aizzare il suo cane contro un altro (allora) giovane cronista che lo aspettava fuori dalla sua villa di Cusano Milanino per intervistarlo, ma gli chiese scusa a poche ore di distanza offrendogli un caffè all’entrata di uno stadio. Trapattoni è fatto così, piace a tutti per questo, è unico per questo.
Il calcio. L’unica professione che uno come lui poteva scegliere e amare in quella maniera viscerale. Un amore che ha radici profonde, come ha raccontato nel libro “Fischia il Trap” il giornalista (ed ex calciatore della Juve) Angelo Caroli: “Francesco Trapattoni aveva troppe cose di cui occuparsi, il lavoro in fabbrica, la coltivazione del terreno, il mantenimento della famiglia, per seguire passo dopo passo i movimenti del biondino. Perciò Giovanni tutti i pomeriggi non rinunciava a frequentare la cricca di amici bravi a dare pesate alla palla. Nelle sue vene correva calcio al posto dei globuli rossi. Se ne ubriacava fino a sfinirsi”. Una cotta per il calcio, una fortuna costruita giorno dopo giorno. Alle medie studiava a lavorava, ma pensava solo al calcio. Poi la svolta, il passaggio dal Cusano al Frassati, squadra milanese della zona di Niguarda. Poi il sogno: l’ingaggio da parte del Milan, l’esordio in prima squadra nel 1957, poi la serie A nel gennaio del 1960, proprio quel 1960 in cui si guadagnò la convocazione per la Nazionale Olimpica. E proprio all’Olimpiade di Roma l’incontro della vita con la moglie Paola, che nei mesi successivi il Trap andava a trovare con la sua 500 usata partendo da Milano per Roma nel giorno di riposo dagli allenamenti. Soldi pochi, amore tanto, tempo contato ma andava bene così.
Una vita da mediano. Questo era il lavoro di Trapattoni. Grande forza di volontà, umile fino al midollo. All’occorrenza giocava anche in difesa, terzino o centrale. Quattordici anni di Milan e uno di Varese, l’ultimo della carriera, giusto perché anche quella volta non voleva arrendersi. Poi la Nazionale, 17 presenze e 1 gol contro l’Austria. Una data poteva rimanere scolpita nella storia del calcio italiano, il 12 maggio 1963. A San Siro si giocava l’amichevole Italia-Brasile e il Trap marcò Pelè senza fargli toccare palla, poi O Rei al 26’ fu costretto a uscire. Chiunque racconterebbe quella giornata come l’impresa di una carriera, ma qualche anno dopo lo stesso protagonista avrebbe ridimensionato tutto: “Ma va, quel giorno Pelè era mezzo infortunato, era anche stanchissimo, lui è stato un marziano, io solo un buon giocatore”. Umiltà assoluta, come stile di vita e come bandiera da far sventolare, sempre.
Inevitabile la scelta di fare l’allenatore dopo avere smesso con il calcio giocato. Era il 1974 e il Milan gli chiese di fare il traghettatore dopo avere esonerato Cesare Maldini. L’anno dopo prese il posto di Giagnoni. E poi? Poi quello che è successo l’ha raccontato lo stesso Trap: “Spuntò la Juventus. Mi telefonò Pietro Giuliano e mi chiese se ero disposto a incontrare Boniperti. Rimasi a bocca aperta. Conoscevo Giampiero bene. Era stato mio compagno di squadra in Nazionale e avversario in tante edizioni di Juve-Milan. Ci incontrammo a Novara, ci fissammo a lungo… Non parlammo di quattrini, nemmeno un accenno. Non me ne fregava niente dei soldi, sentivo che era l’occasione della mia vita. E presi quella bellissima palla al balzo”.
Dal 1976 al 1986, dunque, il Trap è stato l’allenatore della Juventus. Ha vinto 6 scudetti, 2 Coppe Italia, una Coppa delle Coppe, una Coppa Uefa, una Supercoppa Uefa, una Coppa Intercontinentale e la tristissima Coppa dei Campioni all’Heysel contro il Liverpool, ma ha il grande cruccio di non essere riuscito a vincere la Coppa dei Campioni del 1983, perdendo in maniera incredibile la finale di Atene contro l’Amburgo, gol di Magath. Recentemente il collega Enzo D’Orsi ha scritto “Gli undici giorni del Trap” raccontando in questo modo l’impatto di quella finale: “C’era stata Vienna – lo 0-7 all’esordio esterno assoluto nella coppa dei Campioni, con in campo Sivori, Charles e Boniperti – e ci sono state altre sconfitte pesanti e inattese, beffarde e inevitabili. Ma quella di Atene, trentacinque anni fa, è sicuramente la sconfitta più sconfitta nella storia europea della Juventus. Ancora adesso è una pietra miliare nel percorso della squadra più amata dagli italiani e nel racconto delle sue vicende. Non è stata una finale perduta come molte altre. Troppe, sette su nove. È stata la finale che la Juve non avrebbe potuto perdere. Non solo per lo slogan recitato da Boniperti, secondo il quale “vincere non è importante, è la sola cosa che conta”, quasi un’ossessione per generazioni di campioni. Non solo per i sessantamila italiani che si erano ritrovati al Pireo per l’appuntamento con il destino. Non solo per il valore del rivale, l’Amburgo dell’epoca, imparagonabile con la Juve – organizzato, compatto, però sprovvisto di fuoriclasse – ma anche per il momento storico in cui avvenne”.
Fu Ernesto Pellegrini a strappare il Trap a un destino che sembrava irreversibile, quello di legarsi a vita alla Juve. Nel 1986 eccolo in nerazzurro ed eccolo subito al centro di molte discussioni. I primi due anni non furono esaltanti, anche a causa di qualche scelta sbagliata sul mercato, ma nel 1988, con l’arrivo di Matthaeus, Brehme, Berti e Diaz, venne costruita la squadra che poi vinse lo scudetto dei record asfaltando tutto il resto della serie A. Il medagliere dell’avventura interista comprende anche una Supercoppa Italiana e la Coppa Uefa del 1990-91 vinta in finale contro la Roma. Lo scudetto 1988-89 resta l’ultimo trofeo conquistato in Italia. Tornato alla Juve nel 1991, nella sua seconda avventura bianconera ha portato a casa una Coppa Uefa. Poi è partito il suo giro d’Europa: Bayern Monaco in due momenti diversi (un titolo tedesco, una Coppa di Germania e una Supercoppa di Germania), in mezzo un’esperienza al Cagliari, poi la Fiorentina (e un sogno scudetto stroncato dall’infortunio di Batistuta), un anno al Benfica (titolo 1994-95), un passaggio allo Stoccarda, due stagioni al Salisburgo con un campionato vinto. Quattro anni di Nazionale, con la doppia beffa dell’eliminazione condizionata da Byron Moreno ai Mondiali del 2002 e quella costruita sul biscotto scandinavo all’Europeo del 2004. Poi l’esperienza alla guida della Nazionale irlandese dal 2008 al 2013, con il Mondiale del 2010 perso solo a causa di un gol irregolare segnato dalla Francia negli spareggi (mano di Henry e assist per Gallas). Quella irlandese è l’ultima panchina, ma non per scelta. Il Trap vorrebbe ancora allenare, vorrebbe fischiare nelle orecchie dei suoi giocatori, vorrebbe insegnare calcio alle giovani generazioni, quel calcio che trent’anni fa veniva considerato vecchio e che invece è sempre moderno. Perché uno come Trapattoni, anche a 80 anni, è sempre giovane. E allora auguri.