Il calciatore più forte di sempre ma anche un uomo cordiale, affabile, disponibile, simpatico
di Bruno LonghiNon aveva ancora diciotto anni quel ragazzino destinato ad ammaliare un’intera generazione di patiti di calcio. Si giocava la finale del Mondiale del ’58, allo stadio Rasunda, ubicato nel rione Solna di Stoccolma. Non ero là. Ma ero davanti alla Tv con alcuni amici. Piccoli amici, ovviamente. Piccoli come me. Eravamo ancora sudati dopo l’immancabile partitella, tre contro tre, in cortile. Ricordo che era pomeriggio. E che, comprensibilmente, si tifava per la Svezia, infarcita di glorie un po’ appassite della nostra Serie A: Liedholm, Skoglund, Hamrin, Gren, Gustavsson. Segnò subito il “barone”. Ma fu solo pia illusione. L’onda inarrestabile di quel Brasile, travolse letteralmente gli svedesi. E noi voltammo la gabbana di fronte ai dribbling secchi di Garrincha, alle zampate rapinose di Vavà. Alle geometrie di Didì. Ma soprattutto di fronte alle evoluzioni di un bambinofenomeno, Edson Arantes do Nascimento, detto Pelè, che fece breccia nei nostri giovani cuori e nelle nostre fantasie.
Era iniziata, per quelli come me, una nuova era. In cui il calcio non era più una repubblica, ma una monarchia con un Re autentico e universalmente riconosciuto: O Rei Pelé. Un anno dopo lui arrivò col Santos a San Siro per un’amichevole con l’Inter. E io non volevo assolutamente perdere l’occasione di ammirarlo dal vivo. Mi portò allo stadio un cugino molto più grandicello. Ma per tutto il primo tempo la delusione fu immensa. Lui in campo non c’era. Anzi c’era, ma era come non ci fosse. Firmani, il centravanti sudafricano in maglia nerazzurra gli aveva rubato la scena: 3 gol e 3-0 per l’Inter. Ma Pelé sapeva e sentiva che tutta quella gente era li solo per lui. E allora ecco un primo slalom, 5 o 6 avversari saltati come birilli, dribbling al portiere e gol a porta vuota. E poi un secondo slalom, identico al primo, e un altro gol. E poi un terzo, all’ultimo minuto, ma il pallone stavolta non entra, respinto sulla linea da un difensore interista, e lo stadio tira un immenso sospiro di sollievo. Mario Corso, pochi anni fa, ricordando quella partita e ricordando Pelé, ebbe a dirmi senza aver cura di nascondere le sue origini venete: “El moreto xe stà el piu’ forte de tuti.” Giovanni Trapattoni, che ebbe l’onore di non fargli toccare palla in un’altra amichevole, sempre a San Siro, tra Italia e Brasile. Ha sempre sostenuto di non aver marcato in quell’occasione il vero Pelé, ma un giocatore infortunato che era sceso in campo solo per onor di firma (sul contratto). Di lui tutto si sa, tutto è stato detto, è stato scritto, raccontato. Dei suoi mondiali vinti, e di quelli persi. Dei tanti, tantissimi gol. Ho avuto la fortuna di conoscerlo personalmente durante il Mondiale dell’86 in Messico. Me lo presentò Josè Altafini, mio partner nelle telecronache e suo compagno di nazionale nel ’58. Mi stupì. Se la cavava piuttosto bene con l’italiano. Sicuramente perché amava il nostro paese ma probabilmente perché lo aveva studiato essendo stato vicinissimo a un trasferimento clamoroso all’Inter vanificato dalla chiusura delle frontiere. Nel ’90, quando a San Siro giocò l’indimenticabile partita per i suoi 50 anni ebbi l’opportunità di approfondirne la conoscenza. Rimasi due giorni con lui a preparare la conferenza di presentazione dell’evento, ne fui il moderatore e anche il telecronista - con Roberto Bettega - della partita che lui giocò con la maglia della Selecao contro una rappresentativa mondiale. Ne ricordo l’affabilità, la modestia e la grande passione per la musica e per la chitarra, che suonava decisamente bene, e per le bellezze italiane… Ci incontrammo di nuovo a Usa ’94. A Washington, dove, dopo un abbraccio e un sorriso, mi concesse una lunga intervista per le nostre reti. E fu cosi anche a Francia 98. Era la vigilia della finale Francia-Brasile ed io, per presentare l’evento avevo realizzato un’intervista con Michel Platini, tra l’altro a quell’epoca pure Presidente del Comitato organizzatore del Mondiale. Enrico Mentana, da Roma, mi disse che l’avrebbe mandata in onda, l’intervista, solo se gliene avessi inviata anche una con Pelé. Andai di corsa al George V, l’hotel più lussuoso di Parigi. Bussai alla sua porta. E il TG 5 venne accontentato. Questo è stato il mio personalissimo Pelé. L’altro, O Rei, il numero uno assoluto, forte in tutto. Di destro, di sinistro, di testa, nello scatto, nello stacco e in acrobazia, rimarrà per sempre patrimonio dell’umanità che ama il calcio.