Il difensore ripercorre le tappe dai momenti bui fino ad oggi ai microfoni de L’Ultimo Uomo
Lunga intervista di Francesco Acerbi ai microfoni de L’Ultimo Uomo. Il difensore della Lazio, punto fermo della squadra che sta contendendo lo scudetto a Juve e Inter, ha ripercorso alcune tappe della sua carriera: dai momenti bui, alla malattia che lo ha colpito fino ad oggi, col sogno tricolore nel cuore.
"Io giocavo per mio padre. Ci teneva molto, sicuramente più di me. Una volta che lui non c’è più stato io non avevo nessuno per cui giocare. Di certo non per me - esordisce Acerbi, che spiega - Non avevo la testa da professionista. Non avevo rispetto per me, né per chi mi pagava: spesso arrivavo al campo alticcio, senza aver recuperato dai superalcolici della sera prima. Le serate non sono sbagliate a prescindere, il problema è che allora io esageravo”.
Il Milan? "Braida mi aveva detto che sapevano del mio stile di vita e per questo mi avevano trovato casa a Gallarate e non a Milano. Non avevo paura della grande squadra - ricorda - ma non perché fossi coraggioso, perché non me ne fregava niente".
E infatti presto è arrivata la voglia di smettere, negli anni in cui giocava a Verona sponda Chievo: "Volevo smettere di giocare. Non mi interessava più, non trovavo più stimoli. Lo dicevo al telefono a mia madre quando ci sentivamo e lei poveretta non sapeva bene cosa dirmi. Lo dicevo anche a Paloschi, eravamo legati: 'Palo voglio smettere, non ce la faccio più. Dai Ace che cazzo dici? Tieni duro!'. Diciamo che in quegli anni ero un po’ ignorantello, non curavo tutti quei dettagli che fanno davvero la differenza”.
Poi la svolta (“Il cancro è stato la mia fortuna. Ringrazio il Signore per averlo avuto"), che però non è arrivata subito: "Continuavo a comportarmi da non professionista fuori dal campo: le serate, le bevute. Reagivo così alla malattia, stando fuori fino alle 7 del mattino. Continuavo a chiedermi perché la malattia non mi stesse cambiando. Perché non avessi paura. Mi stupivo di restare sempre lo stesso”.
"La certezza di essere cambiato l’ho avuta quando uscendo la sera sentivo il bisogno di bere poco alcol. Mi ricordo anche che facevo una cosa strana: ad ogni bicchiere di vino o birra facevo seguire un bicchiere d’acqua, come se sentissi di dovermi depurare".
E il nuovo stile di vita l'ha portato col tempo ad essere una colonna della Lazio e a mettere nel mirino lo scudetto: “Nella mia testa questo non è il mio punto d’arrivo e l’Acerbi di oggi non è il miglior Acerbi possibile. Se così fosse vorrebbe dire sedersi. Non voglio avere nessun punto d’arrivo. Voglio solo pensare a migliorarmi, a ragionare giorno per giorno. Il mio punto d’arrivo sarà quando smetterò di giocare. Ora devo solo pensare a fare il meglio possibile in ogni minima cosa. Poi si vedrà alla fine. Alla fine della stagione, alla fine della carriera. A un anno dalla malattia mi è successa una cosa. Sono andato a dormire una sera come niente fosse, la mattina mi sono svegliato assalito dal terrore. Avevo paura della mia ombra. Pensavo alle preoccupazioni date ai miei, alle occasioni che avevo buttato all’aria, agli anni sprecati, alle serate di eccessi. Tutto assieme, tutto all’improvviso. Dovevo andare da un analista per superare le paure. Così ho iniziato un percorso che mi ha portato a migliorare come uomo. Limando gli aspetti del mio carattere che potevano farmi naufragare, sbloccando certi miei limiti. Adesso voglio tutto. Senza la malattia sarei finito a fare una carriera in Serie B, o magari avrei smesso. Per fortuna lassù qualcuno mi ha voluto bene e mi ha mandato la malattia. Senza sarei finito malissimo. Nessuno mi avrebbe salvato. Oggi sono soddisfatto della persona che sono diventato, nonostante tutti i miei difetti”.