Ricardo compie 38 anni: era nato nel benessere e riuscì a diventare l'idolo del suo Paese e poi del Milan
La parabola di Kakà, nato Ricardo Izecson dos Santos Leite il 22 aprile di 38 anni fa. Un bambino fortunato in un Paese grande e contraddittorio come il Brasile. Che ama innamorarsi di campioni usciti dalla miseria e che tanta fatica ha fatto a fidarsi di un ragazzino ricco con ambizioni di tirare calci al pallone. Ma che ha vinto tre volte, l'ultima delle quali facendo innamorare un Milan che grazie a lui portò a compimento una piccola rivoluzione.
Distretto Federale di Gama, cuore del Brasile, anni '80. Al potere ci sono ancora i militari, nella figura di João Baptista de Oliveira Figueiredo: la fase più sanguinosa del Novecento per questo enorme, affascinante ed estremamente contradditorio Paese sudamericano volge al termine, ma le divisioni sociali sono e continuano a essere profonde e terribili. Specie per chi ha difficoltà, e in Brasile sono tanti. Cui certo non bastano per distrarsi le imprese di Zico (per l'anima carioca della nazione) o Socrates (per i paulisti). In questo contesto viene al mondo il piccolo Ricardo, il 22 aprile 1982.
Ricardo non è ancora Kakà (lo diventerà dopo la nascita del fratellino Digão, inizialmente incapace a pronunciare il suo nome), ma è già un bimbo fortunato. La sua mamma infatti insegna matematica in una bella scuola, papà Bosco invece fa l'ingegnere. Già questi dettagli lo rendono una mosca bianca nel mondo che si sceglierà: quello del calcio brasiliano, nell'immaginario collettivo popolato da una sola figura. Quella del bambino baciato in fronte dal talento e uscito dalla miseria e dalle favelas tra mille difficoltà. Un tratto comune, nel nostro immaginario, al campione brasiliano di ogni epoca: dai Mané Garrincha degli anni '50 ai Romario, Ronaldo, Adriano, Ronaldinho.
Ricardo non sembra proprio il profilo di un bimbo in grado di entrare nel cuore di un Paese che ha bisogno di identificarsi in figure che incarnano sì il talento, ma anche il riscatto, la redenzione, la resistenza a un destino ingrato. Il suo Brasile sta per scoprirne un altro, tra i suoi figli privilegiati: in quegli stessi giorni non lo conoscono ancora in tanti, perché se ne sta nella fredda Gran Bretagna a correre su macchine di Formula 3 note giuste agli appassionatissimi dei motori. Si tratta di Ayrton Senna, ma tempo una manciata di primavere e si tramuterà in una delle figure più amate del suo Brasile. Per sempre.
Ayrton era partito da San Paolo, e da San Paolo prende il via la parabola di Ricardo, nel frattempo divenuto Kakà. Oswaldo Alvarez lo manda in campo contro il Botafogo, in uno dei tornei giovanili più importanti del Brasile. Una di quelle tipiche fucine di campioncini da cui tanti nomi sono emersi, quelli sulla bocca di tutti nei vent'anni successivi. Peccato che Fabiano sia già una piccola celebrità, mentre quel ragazzino è una riserva sconosciuta anche agli addetti ai lavori. E "non ha la faccia del predestinato": troppo pulita, troppo poco sofferente. Ma Kakà prende a calci le apparenze e segna due gol in due minuti. E la sua sofferenza esiste, anche se è ben nascosta: non solo quella contro i pregiudizi (nella non così rara accezione che colpisce chi deve andare oltre la coltre che investe chi vive in un mondo in cui è tenuto a giustificarsi per una fortuna che lo eleva rispetto alla miseria di amici e colleghi). In realtà la sofferenza è anche fisica, dato che pochi mesi prima si era rotto una vertebra in piscina. Ma in pochi lo sapevano.
Da quel momento si aprono le porte del San Paolo, il mitico 'Tricolor Paulista', e i primi titoli vinti. Non solo: il ragazzino entra ancora teenager nel giro della Nazionale, che lo porta addirittura ai Mondiali del 2002. Sono i primi in cui le partecipanti dispongono di 23 convocati invece dei soliti 22, e il primo storico 23 della storia verdeoro sarà proprio lui. Qui qualcuno lo nota, tra cui gli addetti ai lavori del calcio milanese. Tra Inter e Milan si dimostrano più convinti i secondi, ma lo stesso non succede quando il figlio pulito del Brasile per la prima volta si ritrova davanti il suo nuovo allenatore Ancelotti. Racconterà Carletto: "Lo vidi per la prima volta e mi misi le mani nei capelli. Era pettinatissimo, aveva gli occhialetti, sembrava uno studente universitario in Erasmus. Poi è entrato in campo e apriti cielo. Ma apriti per davvero".
Kakà si rivela l'anello mancante di una squadra che già l'anno prima era tornata competitiva dopo anni grami, senza riuscire a limare definitivamente il gap con la Juventus, l'Inter, le romane. Quantomeno in campionato (in Europa era già stata artigliata una storica Champions League). Con quel brasiliano dalla faccia così poco da campione, invece, arriva subito lo scudetto, e le soddisfazioni saranno superiori solo alle vittorie e ai vari titoli che rimpinguano ulteriormente la già ricchissima bacheca del Diavolo. Quel brasiliano ricco di famiglia, di una ricchezza che diventa una forza non "grazie alla quale" ma "malgrado la quale" fare i conti, per la terza volta supera i pregiudizi e diventa il simbolo di un popolo che lo ama. Che pende dalle sue labbra. Disposto a tutto per lui. Così nel 2009, quando il Milan sta per venderlo al già ricchissimo Manchester City, scoppia l'insurrezione in città. La dirigenza rossonera alla fine cede, e Ricardo che si affaccia da una finestra con la maglia del suo Milan diventa il simbolo di uno degli ultimi travolgenti amori di una piazza che dopo gli Schiaffino, i Rivera, i Baresi, i Maldini, i Van Basten, ha adottato proprio lui.
La storia, per rendere ancora più scintillante il quadro, andrebbe arricchita con la Champions League del 2007, il memorabile gol al Manchester United, il Pallone d'Oro, le vittorie spagnole con il Real Madrid. Ma in fondo questa è solo una cornice in più. Perché Kakà la vittoria più grande l'aveva già ottenuta: diventare Kakà, e farsi amare da quelle persone che in lui vedevano solo il piccolo Ricardo, figlio di un papà fortunato in un Paese in cui l'amore da dare è sconfinato ma è difficile che baci proprio tutti.