Sessanta anni, 46 in rossonero: in una squadra ricca di bandiere e di campioni, è ancora e sempre lui l’uomo in cui si identificano i tifosi rossoneri
di Andrea SaronniNato nel 1968 e milanista assai precoce, mi sono trovato nella posizione anagrafica migliore per incrociare e vivere le epopee rossonere di tanti grandi: Rivera il primo idolo da bambino, Nereo Rocco c’era ancora, ho conosciuto la grande storia di Liedholm (e di rimbalzo di Nordahl, e Gren) quando è stato in due riprese il nostro timoniere, e poi il magnifico Paolo Maldini, figlio di tanto padre, e ancora Van Basten e gli olandesi, Shevchenko, Kakà, tutti questi ultimi sotto l’egida di Silvio Berlusconi. Sono tutti dei tesori preziosi conservati con cura nei forzieri che sono il cuore e la memoria del tifoso. E poi c’è Franco Baresi, che è il Milan.
La rappresentazione vera, vivente dell’immaginario di un milanista con un nome, un cognome, un volto e quei due colori. Nella vita media di un uomo medio, di uno che sia almeno uscito dal guscio, tutto cambia. Non esiste un punto fermo: si cambiano macchine e case, donne e idee politiche, amici e bar, lavori, abitudini, gusti. Tra le pochissime cose che mantengono un link al ragazzino sognante che eri, ecco la squadra di calcio; e in questo specifico caso, pure quel ragazzo spigoloso, dal volto scarno, eppure fortissimo che ogni domenica avresti trovato lì, sul campo, a battersi per tenere su la casa comune rossonera, fosse essa una baracca o un grattacielo di cristallo. Sarà anche un fattore generazionale, non lo nego, ma per me Franco - anzi, pardon, Franchino - Baresi è stato il mio unico e inarrivabile Capitano pressoché da subito, non c’è stato bisogno di Coppe, scudetti, Nazionale, gloria diffusa ancorché strameritata: nella grandezza sua e dei suoi compagni degli anni più abbaglianti, tutto facile. Difficile, difficilissimo invece, sapendo di essere qualcuno con la Q maiuscola, esserci e giocare praticamente da solo in Milan ancora piccoli, e soprattutto feriti, laceri, poveri, sfigati. In quegli anni duri, pre-berlusconiani, c’è la radice del mio affetto totale, incondizionato e sempre marcato dalla gratitudine per Franz che con la maglietta di fuori a coprire quasi tutti i pantaloncini sradicava la palla a qualche malcapitato (e se non ci arrivava, che male, per il malcapitato) con qualche recupero di incredibile veemenza; poi, come il più elegante e tecnico tra gli ossessi, superava come un jet il suo centrocampo-minestrone (Carotti-Verza-Manzo) e filotti di avversari per presentarsi palla al piede al limite dell’area altrui: e poi tra Chiodi e Jordan, Blissett e Incocciati, che volevi fare. Un uomo solo al comando. Teleguidava i compagni, teneva testa a qualsiasi avversario. Ricordo come se fosse oggi un Milan-Juventus del 1984, tristissimo 0-3. Una partita senza storia, una stracciata, apparentemente: fu così dal 70’ in poi, quando Rossi siglò la seconda rete. Al 3’ “mani” netto in area bianconera, tutto regolare as usual, la palla spiovve fuori area e Flipper Damiani pensò bene di tirare un uno-due degno di un bravo peso medio sul muso di Cabrini. In 11 contro 10 dall’inizio contro la Juve forse più forte di sempre, e poco dopo segna pure Platini. Bene, da lì Baresi e nessun altro che Baresi mise per un’ora Madama nella sua metà campo giocando da libero, mediano, mezzala, attaccante. Impressionante, ed era il suo standard.
Il mondo si stupì piacevolmente quando finalmente lo poté ammirare nel grande Milan sacchiano e capelliano, nella Nazionale. Ma noi già sapevamo, da sempre, che “c’è solo Franco Baresi”, uno dei cori più oggettivi mai alzatisi da una curva. “Avesse anche la legnata del gol - scrisse ammirato il Vate Gianni Brera - non avrebbe uguali sulla Terra”. Per me, e per tutti i miei soci di stadio, non ne aveva comunque: e ancora più che per la classe, la tenacia, la voglia, la garra, perché lo sentivamo fortissimamente e veramente dei nostri, il “Piscinin” entrato dal cancello del campo dell’Aeronautica di Linate 46 anni fa e diventato uomo a Milanello, a San Siro, ovunque ci sia stato da lottare, milanista nella buona e nella cattiva sorte proprio come quelli che stavano sugli spalti o vicino alla radiolina a casa. Pensare che oggi sono 60 fa impressione proprio per questa identificazione, perché con la sua vita sta viaggiando anche la nostra: ma chi se ne frega del tempo che va se alla fine il pensiero è esattamente lo stesso di 35 anni fa. “Madonna, è dura domenica”. “Durissima”. “Va beh, l’importante è che ci sia Franco. Il resto vedremo”. Ecco, anche in disparte, anche se il Milan e il calcio oggi sono quello che sono, l’importante è che ci sia Franco. Buon compleanno, Capitano, e ancora e sempre grazie. Iniziano per te età con il 6 davanti, dovresti trovarti bene, questo è l’augurio più grande.