30 anni fa Milan-Real Madrid diede il via al mito
Il mercoledì 19 aprile 1989 di Enzo Salvucci da Macerata, tifosissimo del Milan, fu per sommi capi questo. Mattina: risveglio con cerchio alla testa derivante da festeggiamenti per la fine della naja. Tarda mattinata: uscita tra le lacrime sue e degli amici dalla caserma di Novara. Pomeriggio: treno per Milano con in mano biglietto posto distinti per Milan-Real Madrid, semifinale di ritorno Coppa Campioni. Sera: San Siro strapieno, 5-0 per il Milan, qualificazione alla finale.
Chissà che diceva il suo oroscopo, quella mattina. Il biglietto gliel’avevo ceduto io, a prezzo di costo (50mila lire) e sanguinando, perché alla caserma di Novara mi fermavo ancora per un po’ e non bastasse quello, ero caporale del plotoncino di guardia quel giorno. Fisso in guardiola – almeno quello – riuscii comunque a vedere la partita su un piccolo portatile in bianco e nero: nella garitta che avevo in vista c’era un altro commilitone rossonero, e vedendo agitarmi e fargli continui segni con le dita, uno, due, tre, quattro, pensava che lo stessi prendendo per il culo.
E invece no. Sono passati 30 anni da allora e per quasi 20, da quella lontana sera di primavera, è stato tutto meno che una presa per il culo, una storia di Coppe e di campioni, altre serate incredibili fors’anche più di quella – una per tutti, il 4-0 di Atene al Barça -, ma lì, indubitabilmente, si è messo nero su bianco che il Diavolo costruito da Silvio Berlusconi e affidato a quello spelacchiato e spiritato allenatore era una cosa grande, una di quelle squadre che sarebbero rimaste nella memoria, pietra di paragone, snodo inevitabile per qualsiasi chiacchiera dal livello bar (oggi social) a quelli solo teoricamente superiori.
Un massacro sportivo che portò con sé anche un sacco di simbolismi: la legnata rompighiaccio di Ancelotti, in realtà parabilissima, come il big bang, e poi il festival di tutti e tre gli olandesi, Rijkaard, Gullit, Van Basten. E ancora il cesellino di Donadoni, lo scultore di quel Milan delle meraviglie, il quinto gol che mise fine alla quinta del Buitre, la generazione di Butragueno, Sanchis, Martin Vazquez che ha aspettato quell’anno di troppo per arrivare alla sublimazione continentale.
Il paradosso è che nonostante il trionfo, il punteggio enorme, la prestazione rossonera non raggiunse comunque il livello di quello della partita di andata a Madrid, quella del carpiato di Marco Van Basten, 1-1 soprattutto grazie a uno dei molti arbitri sempre così amici dei merengues. Novanta minuti che hanno contenuto la vera rivoluzione di Sacchi, la ragione perché – giustamente – va considerato uno dei tecnici seminali della storia del calcio italiano: il gioco, direte voi, il pressing alto, il fuorigioco, le fasce, il movimento. No, tutto vero, ma non è questo, che – con meriti e lavoro enorme, e grazie a campioni straordinari – è stato un felicissimo update dell’Ajax e dell’Olanda di Cruijff. La ragione è la rivoluzione copernicana della testa, dell’atteggiamento tattico e caratteriale, il rifiuto del calcolo, del timore: noi siamo più forti.
Più forti tecnicamente, più forti fisicamente, tatticamente non ne parliamo. Baresi, Maldini, Gullit, Van Basten li abbiamo noi, sono gli altri che devono temerci. Quindi, ora prendiamo questa palla, andiamo lì fuori e giochiamo per imporci e per vincere, e non importa se è il Bernabeu, l’Old Trafford, San Siro, il Breda di Sesto San Giovanni. Era la fine degli anni ’80: fino a quel momento tutti quelli della mia generazione (e precedenti) possono ricordare come unanimemente veniva considerato oro uno 0-0 in trasferta in Coppa, o i peana sconfinati quando – raramente – capitava di fare il colpaccio all’estero, sempre e rigorosamente in contropiede. Real Madrid-Milan affermò tutto questo, Milan-Real Madrid diede il via al mito. Quella sera alla caserma di Novara, a mezzanotte circa, arrivò puntualmente il cambio della guardia. Che in realtà, era già arrivato un po’ prima, al fischio finale, da un televisorino in bianco e nero.