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Quaranta anni dopo Nereo Rocco: tra finte verità e gli eredi Gattuso e Allegri

Il ricordo del Paròn: il tecnico della Juve lo ricorda, il rossonero gli "parla"

20 Feb 2019 - 14:12

A 40 anni precisi dalla sua morte, il calcio italiano non si è certo dimenticato di Nereo Rocco, e ci mancherebbe altro, viene da aggiungere. È solo che dopo un segmento di tempo così ampio, mentre sulla sua figura umana il mito è intatto, si nota un po' di confusione, di superficialità intorno al tecnico. L'abbiamo letto anche in questi giorni, in queste ore di ricordo e rievocazione: “Il padre del catenaccio”, “L'uomo che chiudeva la porta", “Tuti indrìo" (tutti indietro), e via stereotipando.

Rocco NON ha inventato il cosiddetto catenaccio, e conseguentemente NON è stato l'inventore del libero, la variante che ai tempi battezzarono "mezzo sistema". Su questo, ci si informi su Ottavio Barbieri, allenatore che guidò i Vigili del Fuoco di La Spezia alla vittoria nel campionato di guerra 1944. Rocco è invece stato, senza alcun dubbio, l’iniziatore di una scuola e di una tipologia di gioco italiana, che partiva assolutamente dell'attenzione difensiva, ma che prevedeva lo sviluppo di un gioco tecnico, e la presenza di numerosi calciatori offensivi. Alla Triestina e soprattutto al Padova, dove ha fatto meraviglie, la componente della prudenza era predominante: grazie, per forza, stiamo parlando di formazioni di provincia che pagavano il gap tecnico rispetto agli avversari più blasonati.

Al Milan, il Paròn, ha avuto a disposizione ben altra gente: e non la teneva fuori per mettere il terzino o il medianaccio in più. Il giocatore di talento non si toccava, corressero gli altri: scoperto Rivera (“i xe i miei òci", è i miei occhi, lo esaltava), non l'ha tolto neanche sotto tortura, e lo stesso vale per Dino Sani, e Altafini, o Chiarugi. Il Milan euromondiale di fine anni ’60 vedeva una barriera di cinque davanti al libero, Rivera a flottare nel mezzo, tre (tre punte) con il raffinato Sormani ad aprire spazi a Hamrin e Pierino Prati. L'ultimo grande Diavolo griffato Rocco, che nel ’73 cade sul traguardo a Verona e vince due Coppe, segna in 30 giornate qualcosa come 65 gol, mandando tre uomini in doppia cifra nella classifica cannonieri.

Di cosa stiamo parlando? Riconosciamo allora il tecnico triestino come caposcuola, a cui sono seguiti Bearzot (il migliore dei suoi eredi tattici) e Trapattoni, che sempre ha citato Rocco come suo paradigma. E oggi? Applicato il filtro di un calcio troppo cambiato nei ritmi, nella preparazione, nel calendario, ė Massimiliano Allegri l'uomo che ricalca piu di ogni altro la filosofia di costruire le vittorie dalle fondamenta difensive senza ovviamente passare alla rinuncia del gioco e ai giocatori, proprio come faceva il Paròn.

Sul campo, ma soprattutto fuori, un altro Rocco sta invece crescendo nell'unico club dove ciò può succedere, vale a dire al Milan. Rino Gattuso arriva proprio dalla parte opposta rispetto a Trieste, ma la sua idea di calcio, ma ancora di più di spogliatoio, di valori umani, di appartenenza, di siparietti che alternano intemerate a momenti comici riportano ai più anziani la memoria del grande Nereo. Proprio Gattuso, la primavera scorsa, raccontò che nei momenti difficili prende il suo caffè e va a parlare con la statua di Nereo Rocco che c'è sopra il campo alto di Milanello. Tra un “mona" e un “minchia" state sicuri che si capiscono, e si apprezzano.

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