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Storia di Pablito: un ragazzo come tanti che ha scritto la storia e non l'ha mai fatto pesare
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Non era lui. Non era Pablito quel signore precocemente invecchiato che si è affacciato per l’ultima volta su uno schermo televisivo, un mese prima di doverci svegliare con quella notizia che proprio in quel momento si cominciava a temere di dover ascoltare. Si sforzava di sorridere, ma non era lui. Era un altro, era un uomo abituato a lottare e a vincere che non voleva arrendersi all’idea di dover perdere.
Aver visto tante partite accanto a Pablito è un privilegio che vale una carriera. Nella saletta accanto allo studio della Champions League, la sua era una presenza illuminante e discreta allo stesso tempo. L’idea di lavorare con un mito come lui era camuffata dal suo essere così semplice, dalla sua attitudine di non far pesare il suo nome. Come un cugino toscano simpatico, sorrideva a tutti, stava tranquillo sulla sua poltrona, osservava particolari di una partita che solo una mente arguta come la sua poteva notare. Il tutto con una semplicità che lasciava attoniti, con una discrezione che è dono di pochi. Poi ci si fermava un attimo a riflettere e si realizzava cosa aveva fatto quel cugino toscano simpatico. Aveva conquistato il mondo con le sue forze.
Che poi, alla fine, erano le forze che quasi tutti hanno dentro. La natura non lo aveva dotato di mezzi fisici straordinari. Statura medio-bassa, muscolatura normale. Tecnica elevata, quello sì, di sicuro, ma non extraterrestre come quella di suoi coevi come Maradona, Zico o Platini. Era un ragazzo come tanti e questa era la sua forza. Perché poi aveva qualcosa che pochi altri hanno avuto nella storia. Quella straordinaria puntualità applicata agli appuntamenti con il pallone, lo strumento che lo ha realizzato. Un centesimo di secondo prima del difensore, sempre. Un centimetro più in su della linea del fuorigioco, quasi sempre. Un chilometro all’ora più dell’avversario diretto, quando serviva.
La carriera, quella sì ha qualcosa di straordinario. Breve ma folgorante. Rischiava di smettere giovanissimo, quando le ginocchia non gli davano tregua, quando era un continuo entrare e uscire da ospedali e studi di ortopedici. Giovanili della Juventus, poi un’esperienza al Como, tutt’altro che indimenticabile. Faceva l’ala destra e forse in quel ruolo avrebbe percorso tutta un’altra strada, molto più tortuosa e meno ricca di soddisfazioni. Invece nel 1976 l’incontro con le due persone che gli hanno cambiato la vita, almeno nella prima fase (la terza fu ovviamente Bearzot): Giussy Farina, allora presidente del Vicenza, ne prese la comproprietà dalla Juventus per un pugno di milioni di lire, mentre G.B.Fabbri, allenatore di quella squadra, lo convinse a fare il centravanti. Da quell’intuizione geniale nacque il Real Vicenza, una squadra che giocava un calcio altamente moderno e spettacolare, che aveva proprio in Paolo Rossi il terminale unico e spietato; intorno a lui l’estro di Cerilli, il podismo di Filippi, la sapienza tattica di Guidetti, Faloppa e Salvi. Promozione dalla B alla A il primo anno, poi un clamoroso secondo posto al primo anno nella massima divisione. Poi ecco la follia di Farina, che pur di tenere il suo gioiello ne riscattò la seconda metà per 2 miliardi e 600 milioni.
Era il 1978 e Paolo Rossi diventava Pablito. Era capocannoniere del campionato italiano e Bearzot non solo decise di portarlo al Mondiale argentino, ma anche di farlo giocare titolare al posto di Ciccio Graziani. Un Mondiale strepitoso, concluso con un quarto posto ma solo per la sfortuna che colpì gli azzurri nelle ultime due gare. Era già mito al ritorno dell’Argentina, ma la stagione successiva andò malissimo, i meccanismi del Real Vicenza ormai erano noti a tutti, la squadra chiuse la stagione con una dolorosa retrocessione e Farina fu costretto a inventarsi un’operazione pazzesca per consentire al suo pupillo di restare in serie A: lo cedette al Perugia che veniva da un secondo posto incredibile in campionato con una formula di prestito biennale. Ma quell’anno al Perugia fu il peggiore della carriera di Pablito, non tanto per il numero di gol, quando per il doloroso capitolo del coinvolgimento nel calcioscommesse con relativa squalifica, che gli fece saltare l’Europeo del 1980 e rischiava di fargli finire precocemente la carriera.
Mesi di sofferenza, di anonimato. Ma a un certo punto si venne a sapere che Paolo Rossi era passato alla Juve. Si allenava ma non poteva giocare, fino a qualche settimana prima del Mondiale 1982, quando la Juve lo rimise in campo. Poche esibizioni e anche incerte dopo due anni di inattività, eppure Enzo Bearzot decise di dargli fiducia, di portarlo al Mondiale contro tutto e contro tutti, escludendo Roberto Pruzzo che poteva essere una pericolosa concorrenza. Come sia andato quel Mondiale lo sanno tutti. Nessuno avrebbe mai sognato di giocare una lira su un’Italia in grado di diventare campione del mondo. Le tre partite del girone eliminatorio, una pena assoluta. Uno 0-0 da sbadigli selvaggi contro la Polonia, un 1-1 strappato con le unghie al Perù, una rimonta subita contro il Camerun, un passaggio del turno riacchiappato per i capelli attraverso conteggi astrusi. Primo turno passato, silenzio stampa in corso, minimo sindacale raggiunto, grazie e arrivederci. Il girone seguente a tre: Italia, Brasile, Argentina. Come dire due giganti e la bambina. Ma la storia d’Italia – non solo quella sportiva – dice che da una montagna di macerie può nascere un capolavoro dell’architettura. Ecco così il capolavoro contro l’Argentina di un giovane ma già fenomenale Maradona, fermato con le cattive da Claudio Gentile. Gol di Cabrini e Tardelli. Poi la leggendaria giornata della sfida al Brasile, la resurrezione di Paolo Rossi, quel 3-2 con la tripletta di Pablito che poi ci ha persino scritto un libro, “Ho fatto piangere il Brasile”. Italia in semifinale, contro la Polonia di Boniek ma senza Boniek. Un segno del destino, proprio come l’esplosione del Pablito nazionale al suo massimo livello, nonostante fosse reduce da una squalifica per il calcioscommesse-shock del 1980. Doppietta anche ai polacchi e finale spalancata.
Fin qui una storia meravigliosa, ma tutta vissuta lontano da Madrid. Prima a Vigo, Galizia, poi a Barcellona, Catalogna. Altra Spagna, altra cultura. L’11 luglio del 1982 invece la storia del calcio italiano si scrisse allo stadio Santiago Bernabeu, sotto gli occhi del presidente della Repubblica italiana Sandro Pertini, il capo di Stato più amato della nostra storia. Una sera d’estate dolce e da assaporare fino al mattino dopo, l’Italia completamente paralizzata davanti al televisore, pronta a infiammarsi anche dopo aver sacramentato per il rigore sbagliato da Cabrini, solerte nel riversarsi in strada al fischio finale per lasciarsi impazzire di gioia dopo l’ennesima prodezza di Pablito, l’urlo di Tardelli, la fuga di Altobelli. Uno di quei momenti in cui anche l’ateo più incallito si mette in testa che esiste un dio del calcio e che può determinare una giustizia ineluttabile.
E chi sta lì, all’interno di quel rettangolo, finisce un po’ per immedesimarsi nella divinità. “Ero lì che facevo il giro del campo con la coppa in mano e non capivo più niente”, ha raccontato Paolo Rossi nel giorno del suo sessantesimo compleanno. “A un certo punto non ce la facevo più e mi sono buttato dietro un cartellone pubblicitario. Ho aperto gli occhi, ho guardato il tabellone del Santiago Bernabeu e ho detto: Dio, grazie per quello che mi stai dando. Chi ha fatto il mio mestiere non può vivere niente di meglio”.
Era l’11 luglio 1982 e l’Italia vinceva il suo Mondiale più bello. Non è un dato certificato, ma la sensazione di quelli che l’hanno vissuto, al momento inconfutabile.
Quelli del 1934 e nel 1938 non se li ricorda nessuno, quello del 2006 con i rigori finali non si può ammantare dello stesso fascino. E comunque nel 1982 c’era Paolo Rossi.
Poi la carriera alla Juve, tre anni di soddisfazioni ma anche di dolori, con quella Coppa dei Campioni vinta in mezzo alla tragedia dell’Heysel. Campione in mezzo ai campioni, terminale non più di Cerilli e Faloppa ma di Platini e Boniek. Tutta un’altra vita ma anche il ritorno di qualche guaio fisico. Nel 1985 nella sua vita ricomparve Giussy Farina che nel frattempo aveva comprato il Milan. Farina l’aveva sempre definito “il giglio più candido del calcio italiano”, lo vide in difficoltà in maglia bianconera, gli fece vestire quella rossonera, una sola stagione, due gol ma anche in questo caso pesantissimi, perché li segnò all’Inter in un derby finito 2-2. Poi un veloce tramonto, un anno al Verona e la decisione di dire basta a soli 31 anni.
Basta per davvero, però. Basta calcio, se non chiacchierato con gusto. Niente ruoli da allenatore o dirigente, il piacere di fare l’opinionista in televisione, di raccontare sulla carta la propria vita e di provare a fare qualcosa di diverso, tipo gestire un agriturismo. E sempre quel sorriso, quella capacità di comunicare attraverso uno sguardo che è sempre stata la sua forza e che invece da qualche tempo lo stava un po’ tradendo, stava raccontando al mondo che qualcosa non andava.