Il 14 maggio 2019 il centrocampista, dopo 18 anni tra i giallorossi, annuncia la separazione dai colori di una vita
Il calcio ha la capacità di unire uomini e colori e fonderli nel concetto di bandiera. L'ultima viene ammainata un anno fa, il 14 maggio 2019: Daniele De Rossi annuncia l'addio alla Roma, la squadra di una vita e di mille battaglie. Deluso dall'atteggiamento della società, che secondo il centrocampista non si sarebbe mai fatta sentire per rinnovare il contratto in scadenza, De Rossi gioca d'anticipo così come sul prato verde, e lascia la maglia che ha sempre amato.
Con la Roma “Capitan Futuro” ha disputato 616 partite, il secondo di sempre dietro “Sua Maestà” Francesco Totti, un'altra bandiera entrata ai ferri corti con la società e per questo costretto ad andarsene. Se il Pupone ha legato la sua intera carriera di calciatore alla Roma, De Rossi dopo l'addio si cimenta in un'altra esperienza. Esotica, ammaliante, romantica, ma perfettamente aderente al suo carattere sanguigno: lo vuole il Boca Juniors e l'occasione di vedere da posizione privilegiata il tifo della Bombonera uno come lui non se la lascia scappare. L'avventura argentina inizia con un gol in coppa all'Almagro ma dura un battito di ciglia: sette partite diluite in poco più di cinque mesi e poi l'addio definitivo. Non solo al Boca, ma al calcio giocato: quasi 20 anni di battaglie si fanno sentire nelle gambe di un guerriero che non si è mai risparmiato, in campo e nello spogliatoio.
Se sul terreno di gioco, infatti, De Rossi è stato un centrocampista formidabile, capace di reggere praticamente da solo un reparto, sicuramente tra i migliori interpreti del calcio europeo per diversi anni, fuori dal campo ha sempre fatto sentire la sua voce. Anche a costo di diventare impopolare tra i suoi tifosi (ammettendo ad esempio la superiorità della Juventus di Allegri), oppure di rispondere a muso duro allo staff dell'ex ct Gian Piero Ventura: storico il suo “Guarda che non dobbiamo pareggiare, dobbiamo vincere”, nel finale di Italia-Svezia, spareggio per i Mondiali 2018.
Ha sempre detto la sua e a suo modo, andando oltre i canoni standardizzati e ripetitivi del calciatore medio. Come un giocatore di un'altra epoca, romano e al tempo stesso trasversale, amato da tutti perché tutti potevano rivedersi in lui. Perché ha dedicato un'intera carriera all'inseguimento dei suoi sogni, il che lo rende umano pur nella dimensione dorata del pallone. Qualche esempio? Quella fascia da capitano rincorsa anno dopo anno per staccarsi di dosso l'etichetta di “Capitan Futuro” ed esserlo davvero: ce l'ha fatta, ma è durato solo due stagioni. E poi la conquista dello scudetto, cosa riuscita a leggende della romanità come Totti e Bruno Conti, ma non a lui. Il campionato gli è sempre sembrato un orizzonte: lo vedeva, ci andava incontro e qualche volta si è pure avvicinato, salvo poi allontanarsi subito. Alla fine è sempre svanito, ma lottare per raggiungerlo ne è valsa la pena. E se qualcuno gli chiedesse se lo rifarebbe, avrebbe già pronta la risposta: “Ho un solo rimpianto, quello di poter dare alla Roma una sola carriera”.