Il capitano vive un momento difficile sia con la Roma che con la Nazionale. Eppure tutti gli allenatore stravedono per lui
Il capitano con l'asterisco - l'unico a sollevare un trofeo europeo negli ultimi 60 anni, eppure amato da molti con riserva - diventa un caso Nazionale: l'ottobre nero di Lorenzo Pellegrini culmina con l'espulsione contro il Belgio, e i fischi che gli riserva l'Olimpico - casa sua - sono se possibile ancora più assordanti di quelli che da tempo lo accompagnano con la maglia della Roma. Colpevole - per molti - di essere un top player solo per stipendio e di non essere un leader magnetico; senza dimenticare chi gli rimprovera di aver assistito quasi da spettatore inerme agli esoneri di Mourinho prima, e De Rossi poi. Voci di popolo, sia ben chiaro, perché - ad esempio - sul licenziamento di DDR Lorenzo si è poi ufficialmente espresso; ma sufficienti a catalizzare un dissenso direttamente proporzionale al peso della fascia che porta al braccio, un'eredità non certo banale.
Così, complice anche una condizione fisica precaria, che spesso lo costringe a forzare pur di giocare, ogni partita è per Pellegrini una rincorsa. Contro i fischi, contro quella sindrome da Re Mida al contrario che lo attraversa, contro i giganti carismatici del recente passato e - verrebbe da dire - anche contro il troppo amore. Quello che esige e giudica, spesso un peso, più che un volano. Perché dove finisce il giocatore e inizia l'uomo, Pellegrini è schivo, riservato e nel suo mondo, con gli affetti più cari, si rinchiude.
Eppure, mentre la città si divide fra chi lo sostiene e chi invoca la requisizione della fascia, non c'è allenatore che non straveda per lui, e non sarà certo un caso. È tornato a Trigoria: sarà già l'Inter a dire se questo autunno di altrui scontento sarà uno stimolo oppure un macigno. E certo col contratto in scadenza nel 2026, sarà questa la stagione della verità, in un senso o nell'altro.