A quattro decenni dalla riapertura delle frontiere selezioniamo il meglio che il campionato ha importato dall'estero
Nel calcio le innovazioni sono quasi all'ordine del giorno. Figurarsi cosa significhi un salto di quattro decenni. Per esempio, a inizio 1980 l'acquisto di un fuoriclasse come Cristiano Ronaldo non era possibile, perché vigeva un'autarchia che durava dal Mondiale disastroso del 1966: un club non poteva acquistare giocatori stranieri dall'estero. Tuttavia, alla fine della stagione 1979-80, e dopo lo scoppio dello scandalo-calcioscommesse, la Figc fece un passo indietro e riaprì le frontiere. La decisione portò una ventata di novità e nel campionato partì la caccia allo straniero, variamente regolamentata nel corso degli anni. Sicuramente, dal 1980 in poi, la Serie A ha importato numerosi campioni. Dieci, tra questi, spiccano forse più di altri. Sono ordinati non per bravura ma semplicemente per l'anno di arrivo in Italia. Un solo criterio di selezione: la grandezza, intesa come impatto avuto su club e nazionali di appartenenza.
MICHEL PLATINI
“Lo abbiamo preso per un pezzo di pane: ci abbiamo aggiunto molto caviale ma se lo è meritato”. Questa frase di Gianni Agnelli riassume il quinquennio di Michel Platini alla Juventus. Quattro stagioni a livelli siderali, l'ultima - sottotono - anticipò il ritiro. Platini vestì il bianconero il 30 aprile 1982: il presidente Giampiero Boniperti lo soffiò all'Inter e si assicurò per 250 milioni uno dei calciatori europei più forti del dopoguerra. Con la maglia della Juventus “Le Roi” ha disegnato gioco e lo ha finalizzato, per quella sua qualità di essere calciatore a tutto campo: ad assist millimetrici univa dribbling mai vanitosi ma sempre utili allo sviluppo dell'azione; a lanci perfetti combinava una freddezza sotto porta non immediata per un “10”. Il francese, in maglia juventina, ha siglato 104 gol in 223 partite, riuscendo per tre volte nella doppietta classifica cannonieri-Pallone d'Oro. In nazionale non vinse il Mondiale ma ha complessivamente realizzato 41 reti in 72 presenze. Strepitoso l'Europeo 1984: segnò in tutte le gare, per un totale di nove centri in cinque gare.
ZICO
“Zico o Austria”, era scritto su uno dei cartelloni portati in strada dai tifosi dell'Udinese nell'estate del 1983. Era soprannominato così Arthur Antunes Coimbra, uno dei calciatori tecnicamente più dotati della storia. In quell'anno era probabilmente il più forte del mondo e fa impressione che ad accaparrarselo fosse stata l'Udinese, squadra di medio-bassa classifica. Ma la Serie A degli anni Ottanta rappresentava l'Eldorado del calcio: tutto sembrava possibile e ogni campione voleva trasferirsi in Italia. Fu un trasferimento travagliato: il presidente della Figc Federico Sordillo lo vietò inizialmente ma si arrese davanti alle pressioni popolari. Addirittura il presidente della Repubblica Sandro Pertini appoggiò la protesta, mostrandosi interessato a vedere in Italia campioni come Zico e Cerezo (trattato dalla Roma). Il numero 10 brasiliano, soprannominato anche “Pelé bianco”, era un fuoriclasse capace di mettere piedi fatati e dribbling al servizio dei compagni, soprattutto nel primo dei due anni in Friuli. Nel 1983-84, non fosse stato per un infortunio a fine stagione, avrebbe vinto il titolo di capocannoniere, lui che non era un attaccante. Ma trasformava una punizione in rigore, al punto da accorgersi, durante un allenamento a Udine, che la traversa di una porta fosse più bassa dell'altezza regolamentare. La colpiva sempre, ma in realtà erano tutti gol. Reti che in Italia si sono viste, eccome: con l'Udinese il “Galinho” è andato a segno 30 volte in 54 partite.
DIEGO ARMANDO MARADONA
Nel 1982 Platini, nel 1983 Zico, nel 1984 Maradona. Con l'arrivo del fuoriclasse argentino, la Serie A era definitivamente il centro del mondo calcistico. Una folla oceanica lo accolse a Napoli il 5 luglio 1984. Lo stadio San Paolo non era mai stato così pieno: 80mila persone per assistere alla presentazione dell'ex stella del Barcellona, che aveva lasciato la Spagna sbattendo la porta ed era stato acquistato con uno sforzo finanziario di oltre 13 miliardi di lire. Solo a una visione superficiale il fisico di Maradona, 165 cm, poteva essere ritenuto inadatto al calcio fisico italiano: in realtà l'argentino era dotato di baricentro basso e forza esplosiva nelle gambe, qualità che gli consentivano di resistere agli interventi più duri (e in Serie A non ci si risparmiava). Classe cristallina, un sinistro capace di inventare cose impensabili, Maradona è stato il picco di genio più alto mai visto in campionato. Leggendario non solo per le giocate sue, ma anche per quelle che permetteva agli altri: da leader nato, sapeva coinvolgere al massimo ogni compagno e mai nessuno di loro ha detto una parola negativa su Diego. Si faceva amare e ricambiava l'amore con i gol: cinque decisivi, in nazionale, per vincere (quasi da solo) il Mondiale del 1986. Due di questi epocali: uno di mano e l'altro partendo da centrocampo, sempre l'Inghilterra come vittima. E sapeva combinare questo istinto creativo con la furbizia del capopopolo, da Masaniello di Lanus (Buenos Aires). Il leader perfetto per portare Napoli nelle sfere alte del calcio italiano: due scudetti storici (1987, 1990), una Coppa Uefa (1989), una Coppa Italia (1987) e una Supercoppa italiana con un clamoroso 5-1 alla Juventus (1990). Praticamente, metà bacheca napoletana è stata costruita da Maradona. Il Pibe de Oro, in maglia azzurra, ha segnato 115 gol in 259 gare prima di lasciare l'Italia nel 1991 per i problemi legati all'assunzione di droghe.
MARCO VAN BASTEN
Sul finire degli anni Ottanta la Milano calcistica si abbellì per dominare la scena italiana e internazionale. Sulla sponda rossonera del Naviglio approdò un 23enne di belle speranze: aveva segnato 128 gol in 133 partite con la maglia dell'Ajax. Ma si poteva pensare che il campionato olandese fosse troppo di manica larga con gli attaccanti. Silvio Berlusconi si tolse ogni dubbio e pagò 1,75 miliardi di lire per acquistare, nel 1987, Marco van Basten. Si tratta di uno degli attaccanti più forti di ogni epoca: un ballerino di danza classica alto quasi uno e novanta e in scarpe da calcio; tecnicamente eccellente, abile con entrambi i piedi, sapeva vestire i panni del 10 e del killer d'area. La prima stagione al Milan fu un brutto presagio: per problemi alle caviglie giocò solo nel finale, segnando tuttavia gol determinanti per l'unico scudetto di Sacchi. Con il Milan realizzò 125 reti in 201 partite, ma nelle gare in cui ha fatto centro i rossoneri non hanno mai perso. Un dato incredibile. E non sorprende che Capello, nel tentativo di vincere la finale di Champions League del 1993 contro il Marsiglia, lo abbia schierato praticamente zoppo. Non si poteva rinunciare a cuor leggero a piedi che avevano disegnato una parabola come quella che beffò Dasaev nella finale dell'Europeo 1988. Uno dei gol più belli, se non il più bello, della storia. Si ritirò nel 1995, a soli 30 anni, martoriato dalle caviglie e da operazioni inefficaci, ma già dal 1992 aveva chiuso ad alti livelli. Il calcio si è perso il miglior van Basten e ancora non se lo è perdonato.
LOTHAR MATTHÄUS
L'Inter invece acquistò dal Bayern Monaco, nel 1988, un tedesco di antiche origini ebraiche, che sapeva fare tutto. E lo sapeva fare benissimo. Il neologismo “tuttocampista” è in realtà disegnato apposta per Lothar Matthäus, autentico totem degli anni Ottanta e Novanta, capace di reggere per due decenni i ritmi del calcio mondiale. Leader tecnico, temperamentale e carismatico di Germania, Bayern e Inter, mordeva le caviglie del trequartista avversario e capovolgeva l'azione. Spesso segnando, perché era dotato di un tiro potente e preciso. In Italia fu assoluto protagonista dell'Inter dei record (1988-89), mentre l'anno dopo avrebbe conquistato il Mondiale (realizzando quattro reti) e il Pallone d'Oro. È, insieme a Gigi Buffon, Antonio Carbajal e Rafa Marquez, uno dei pochi giocatori della storia ad aver disputato cinque edizioni della Coppa del Mondo. Polivalente e spesso usato come libero in difesa, Matthäus ha giocato nell'Inter fino al 1992, totalizzando 53 gol in 154 partite. Poi il ritorno al Bayern Monaco, dove nel 1999 avrebbe sfiorato la Champions League, uno dei pochi trofei che gli manca in bacheca.
GABRIEL OMAR BATISTUTA
Nel 1991 arrivò a Firenze un argentino con radici italiane, precisamente friulane. Ma Gabriel Omar Batistuta conobbe l'Italia già nel 1989. Disputò il torneo di Viareggio con il Deportivo Italiano e il Newell's Old Boys (squadra proprietaria del cartellino) lo offrì ai padroni di casa: “Non è un giocatore da Viareggio”, la risposta lungimirante. Infatti avrebbe sfondato in Serie A con la maglia viola, amore di una carriera. Il legame tra Batistuta e la Fiorentina va oltre i gol e finisce per rappresentare la Serie A degli anni Novanta, quella dei tanti fuoriclasse e delle molte bandiere. Batistuta era entrambe le cose: potenza nelle gambe, dinamite nel piede destro, ma anche legame simbiotico con una città. Il gol era il suo pane quotidiano: ne ha realizzati 184 solo in Serie A. È il quarto miglior realizzatore straniero di tutti i tempi del campionato italiano, dietro Nordahl, Altafini (anche se poi è stato naturalizzato italiano) e Hamrin. Ma i due svedesi hanno “sfruttato” anni allegri dal punto di vista difensivo, mentre l'italo-brasiliano ha disputato 140 partite in più in campionato. Batigol, che per la Fiorentina aveva accettato anche la Serie B, nel 2000 passò alla Roma e vinse lo scudetto da protagonista, piangendo dopo aver realizzato un gol contro la sua ex squadra. Sarebbe finito anche all'Inter, nel 2003: quasi una comparsa, ma le caviglie avevano già deciso per lui.
ZINEDINE ZIDANE
Esistono animali più diversi tra la farfalla e l'elefante? Zinedine Zidane ha suggerito a tutti di andare oltre le apparenze: anche un “elefante” (definizione di Jorge Valdano) può volare. Alto 185 centimetri, pesava 80 chili, ma appena toccava il pallone partiva il repertorio di Tchaikovsky. La Juventus lo adocchiò nel 1996: si era messo in luce con il Bordeaux ma fallì l'Europeo, e all'arrivo a Torino qualche scettico credette che la società avesse buttato oltre sette miliardi. Nulla di più sbagliato, se si pensa che la Juventus, cinque anni più tardi, ne avrebbe incassati 150 dalla sua cessione al Real Madrid: con i Blancos Zidane vinse la Champions League e il gol al Bayer Leverkusen (2002) è tra i più belli realizzati in una finale. Forse l'intelligenza calcistica più raffinata di sempre, con una sola finta di corpo poteva saltare tre uomini (vedere il gol in Reggina-Juventus del 2000 per credere) facendola apparire come la cosa più semplice dell'universo. Un talento esploso addirittura tardi, ma accecante: nel 1998 vinse Pallone d'Oro e Mondiale da protagonista, nel 2000 guidò i “Bleus” alla conquista del'Europeo, senza contare una Coppa del Mondo 2006 da strabuzzarsi gli occhi nella fase finale e conclusa (insieme alla carriera) nel modo più brutto e teatrale. Non è entrato molto nei tabellini (31 gol in 212 presenze con la Juventus), tuttavia creava i presupposti affinché ci entrassero gli altri: assist, giocate decisive, qualcuna “più divertente che utile” (come lo definì Gianni Agnelli). Ma si guarda il calcio anche per questo. E ora, da allenatore, è magari più utile che divertente: al Real Madrid se la sono spassata, con tre Champions League consecutive.
RONALDO
Dal 1996 al 1998 c'erano tanti ottimi giocatori, pochi campioni e un fenomeno. Anzi, il Fenomeno. Una macchina perfetta, probabilmente la più performante mai vista su un campo da calcio: velocità fuori scala per avversari, un doppio passo che tramortiva anche i difensori più navigati e una freddezza da killer dell'area che si opponeva al sorriso fanciullesco. Nel 1997 il presidente dell'Inter Massimo Moratti regalò ai tifosi Ronaldo Luis Nazario de Lima, pagato 48 miliardi al Barcellona. Cinque le stagioni in nerazzurro. Nella prima si guadagnò il Pallone d'Oro, mise a soqquadro ogni difesa di Serie A e fece vincere una Coppa Uefa a una squadra che - oltre a lui - aveva poco altro da offrire, soprattutto in difesa. Poi tanti infortuni, due gravissimi al ginocchio destro, e l'Olimpico che per il Fenomeno è stato valle di lacrime: nel 2000 per il secondo crac al legamento crociato, nel 2002 per uno scudetto perso nel modo più incredibile. Passò al Real Madrid e, nel 2007, diede uno schiaffo al passato: accettò la corte del Milan e segnò nel derby, con tanto di esultanza provocatoria. In Serie A ha all'attivo 58 gol in 89 presenze, senza conquistare nessuno scudetto. Si rifece con il Brasile, portato in cima al mondo nel 2002 con otto reti in sette partite.
KAKÁ
Arrivato in Italia nel 2003 con l'aspetto dello studente universitario, Ricardo Izecson dos Santos Leite, detto Kaká, in realtà sul campo aveva molto da insegnare. Trequartista brasiliano di nascita ma europeo di indole e caratteristiche tecniche, Kaká ha fatto le fortune del Milan con 104 gol in 307 presenze. Il punto di forza era certamente la progressione: pochi calciatori sono stati così devastanti in campo aperto e non stupisce che abbia terminato presto la carriera ad alti livelli, una volta che il fisico ha cominciato a calare. Contribuì in maniera determinante all'unico scudetto dell'era ancelottiana al Milan e, fino al 2007, è stato tra i migliori giocatori del mondo: imprendibile in accelerazione, ma il repertorio si estendeva a un gran tiro dalla distanza e una visione del gioco fuori dal comune (abbagliante l'assist per il 3-0 di Crespo nella finale di Champions League 2005). Si fece carico della delusione di Istanbul e nel 2007 fu il principale protagonista della cavalcata milanista verso Atene: grazie a questo successo vinse anche il Pallone d'Oro. Fu l'apice della carriera, passata poi da Madrid (2009-2013), ancora Milano (2013-14), Brasile e Stati Uniti. Il meglio lo aveva ampiamente dato, ma se c'è un giocatore-chiave nel passaggio da un calcio più tecnico a uno più fisico, questo è il brasiliano con l'aspetto da universitario.
CRISTIANO RONALDO
Come si accennava, i ritmi del calcio sono diventati più frenetici, anche in campo. Due ci hanno convissuto meglio di tutti: uno, Messi, adegua il gioco a sé; l'altro, Cristiano Ronaldo, ha adeguato il suo corpo al gioco. Il portoghese è l'esempio di dedizione maniacale verso il calcio: l'eccellenza come obiettivo minimo, la leggenda come aspirazione continua. Cinque Champions League tra Manchester United e Real Madrid, un Europeo storico con il Portogallo e cinque Palloni d'Oro sono solo i trofei più luccicanti di una bacheca sterminata. Nel 2018 la Juventus lo acquistò per 100 milioni di euro (più 12 di oneri accessori): non solo il più costoso trasferimento nella storia della Serie A, ma una dichiarazione di intenti all'Europa, perché chi prende Cristiano Ronaldo avvisa la concorrenza di avere la Champions League nel mirino. Fuoriclasse assoluto, ha segnato il decennio grazie alla rivalità con Messi: quasi nessuna generazione ha potuto ammirare due di questo livello nello stesso periodo. Fisico da atleta superiore, con il passare degli anni ha perso qualcosa in velocità e dribbling ma ha compensato con una cattiveria e un senso del gol raramente rintracciabili in altri campioni. Completo, capace di essere letale con entrambi i piedi e in tutti i modi: punizione, contropiede, acrobazia. Eccellente nel gioco aereo, con la Juventus ha già realizzato 53 gol in 75 partite. Solo l'emergenza-coronavirus lo ha fermato in una stagione - numericamente parlando - ai livelli di Madrid (21 centri in 22 partite di campionato). Vedere lui, Messi e altri campioni ai box fa solo venir voglia di uscire subito da questa pandemia.