L'evoluzione dei cori in terra anglosassone
Ci troviamo nel sud di Londra, è una giornata uggiosa, abbiamo qualche pinta di troppo in circolo e in “The Den”, nel cuore della working-class, è appena partito spontaneamente questo perfetto esempio di terrace chant. Oltre ad essere tra i più riconoscibili in Inghilterra, questo coro è tra i più semplici e belli tra quelli (tanti) d’Oltremanica: doctrina, brevitas e labor limae.
No, non siamo a Roma nel I secolo a.C. tra i poetae novi, anche se i primi a cantare per gli atleti sono stati proprio i romani, che durante le corse delle bighe accompagnavano i carri al traguardo con il grido ritmato “Nika! Nika!”. Nessuno quindi intende accostare la corrente letteraria al tifo inglese, anche perché come diceva qualcuno in Fascisti su Marte: “Inglesi, gente che andava nuda a caccia di marmotte quando noi già s’accoltellava un Giulio Cesare”. Eppure, anche i cori da stadio sono una forma di poesia e, per caratteristiche, c’è un sottile filo che li lega al più alto genere letterario, in particolare allo stile neoterico.
Infatti, se si ha intenzione di creare qualcosa che permanga nella mente di chi ascolta, la melodia e la brevità sono importanti ma è la doctrina, come per i neoterici, a fare la differenza. Senza la conoscenza della propria storia, l’orgoglio verso i colori sociali e allo stesso tempo l’irriverenza e un po’ di sano veleno verso l’avversario, si rischia di creare una semplice filastrocca.