Storia di un fenomeno (mancato) del Belpaese
"Quando indosso la maglia azzurra dell’Italia, la sensazione è di portare in campo tutto il mio paese. Che poi per me significa le persone che conosco, che mi sono state vicine. So che per alcuni miei colleghi vestire i colori della nazionale è faticoso, aggiunge pressione a pressione. Per me no: la maglia azzurra mi dà una carica di energia nuova, entusiasmo e motivazione".
Così parlò Fabio Fognini, anzi, scrisse. Lui o chi per lui, ovviamente, nel suo libro autobiografico Warning. La mia vita tra le righe. E allo sguardo un po’ perplesso del lettore che è deluso per non aver letto nelle prime due righe i noti epiteti con cui i giornalisti definiscono il campione ligure, chiediamo di reprimere per un momento il sacrosanto pregiudizio sul vincitore di Montecarlo 2019; di continuare a leggere queste e vedere se, con l’aiuto della logica ma soprattutto del sentimento, riesce a persuadersi dell’esistenza di un altro Fognini. Quello, appunto, nazionale.
La persona è la stessa, il cervello anche, ma il Fognini nazionale è un soldato, irriducibile, presente a sé stesso e alla nazione, in grado di lottare e di non mollare mai – impossibile, direte voi. Si perché non è sufficiente la netta vittoria in azzurro contro Murray, né lo sono più in generale i risultati in Coppa Davis, per scacciare via il malumore del lettore un po’ moralista che mal sopporta il comportamento fuori dalle righe del tennista. Si prenderà allora ad esempio la sconfitta dello stesso Fognini nel 2015 in Kazakistan, dove perse il match decisivo al quinto set contro un signor nessuno di nome Nedovyedov.