Lo spirito francese espresso nel campo
Parigi, maggio 1968. Mentre nelle strade si marcia e si protesta, qualcuno si ricorda che l’unicità della Francia risiede soprattutto in quella magica atmosfera poetica e charmant, e che i grandi Francesi sono capaci di trasformare – come nessuno – la loro vita in un’opera d’arte, preziosa e rara. Perciò, fuori dal coro degli slogan urlati dalla massa sessantottina, riecheggia il più lirico degli inni all’individualismo dell’artista. Il brano è “Le cabotin” e si appella alla secolare tradizione della chanson: arriva in Italia con titolo “L’istrione”, interpretato da tale Chahnourh Varinag Aznavourian (per tutti Charles Aznavour). Esalta l’egocentrismo per dovere e il talento incolpevole di chi vive d’arte; di chi, pur certo di essere il migliore, quando è solo sul palco ha l’inevitabile bisogno di un pubblico.
Nel stesso periodo, sotto gli occhi del padre allenatore, muove i primi passi nelle giovanili della squadra di Jœuf, sua città natale, l’uomo che più di ogni altro porterà sul campo l’essenza profonda della Francesità: è Michel François Platini, e “L’istrione” è la colonna sonora della sua carriera. Cinquant’anni dopo, mi domando cosa abbia spinto il giovane Alessandro Del Piero ad appendere proprio il suo poster in camera, e mio fratello a chiedere in regalo la maglia 10 della Juve sponsorizzata Ariston per imitare le sue gesta giocando in cortile. Mi chiedo anche perché, nata tra la caduta del Muro di Berlino e Tangentopoli ma amante del vintage, io mi sciolga davanti al sorriso di quel Francesino come le mie coetanee davanti a CR7, e perché conservi la sua maglia come una reliquia. Come si spiega, in fondo, che Platini abbia affascinato tanti in tempi e luoghi così lontani tra loro?