Il Duce intuì il valore politico e sociale del pallone
Non temiamo nessuna accusa d’omaggio servile se diciamo che Mussolini è il primo e più completo sportivo d’Italia”: così parlava Lando Ferretti, uomo forte del calcio nazionale, nel lontano 1933. Benito Mussolini effettivamente adorava la scherma, l’equitazione, l’aviazione, insomma, tutti quegli sport che potevano essere utili alla magnificenza fascista e all’arte della guerra. A riprova di ciò esistono diverse foto che lo ritraggono con gli sci o in altre pose sportive: la virilità da esporre, d’altronde, faceva parte del campionario da regalare alle masse, che si trattasse di attività agricole o di proclami nazionalisti in pose di goffa mascolinità.
La resistenza alla fatica, l’occhio da esperto, la padronanza del mezzo, i nervi d’acciaio: queste erano le espressioni che dovevano rendere il Duce una sorta di superuomo capace di addomesticare alle sue volontà la tecnologia, i motori ruggenti delle moto o degli aeroplani, o anche l’irrequietezza selvaggia dei migliori purosangue, passione condivisa con Gabriele D’Annunzio. Mussolini però non amava il calcio, e solo nel corso del tempo (e con l’esperienza) imparò ad apprezzare quello che sarebbe presto diventato lo sport nazionale.