La notte di Ferrara, puntuale, dopo le due vittorie post-Covid
di Andrea Saronni
Alla fine il Milan bisogna anche ringraziarlo, perché ti rende (o conserva) realista, fissato con il piombo alla terra, per i voli pindarici rivolgersi altrove. È una squadra che in tempo praticamente reale annulla, interrompe, inibisce qualsiasi tipo di sogno, anche piccolino, sono “mostruosamente proibiti” - citando Paolo Villaggio - persino quelli relativi a robe semplici, in fondo: un mini-ciclo di vittorie, di partite che ti facciano spegnere la televisione con un sorriso, una classifica più dignitosa. Niente.
Le vittorie post-Covid con il Lecce e con la Roma hanno fatto pensare la gente rossonera a un progresso, a una consapevolezza nuova nell’affrontare le sfide, alla possibilità di un finale di stagione sopra le righe del settimo-ottavo posto? Fermi tutti, oh, ma che, scherziamo? Ed ecco intervenire con tempismo la notte di Ferrara, piena di zanzare, fastidiose, ma meno di inutili tiri verso la porta, di impotenze conclamate. Sotto per 2-0 per evidente mancanza di feeling con la partita (e primo buonanotte è stato quello alla speranza di una continuità), il Diavolo l’ha sfangata per progressivo annebbiamento degli sfiniti spallini, a cui per oltre 80 minuti erano stati sufficienti ordine e forza di volontà per tenere testa in 10 al velleitario assalto rossonero, condotto certamente con altrettanto cuore, ma con una pochezza tecnica e mentale da fare cadere le braccia. Giro palla a difesa schierata, soluzione più elementare possibile e poi, pum!, tiro in porta quasi sempre leggibile dal portiere Letica (tra l’altro alle prime esperienze in Serie A), oppure fuori bersaglio: alla fine madre statistica ci ricorderà che le conclusioni “ufficiali” rossonere sono state 41, a memoria trattasi di record. Il fatto che nello specchio ne siano giunte 9 e che i due gol che hanno evitato una sconfitta umiliante siano venute da una svirgolata-assist di Tomovic sfruttata da Leao e da un autogol, dice quanto il suddetto record sia da nascondere immediatamente, come i brutti voti ai tempi della scuola.
La verità di una rosa insufficiente, inadeguata a nutrire seppur minime ambizioni è tornata a galla presto, insomma, tipo gli gnocchi gettati nell’acqua bollente. Alle prese con un primo tentativo di ricambio, si è messo nero su bianco per l’ennesima volta che il turnover è mission impossible per Pioli. Gabbia, unica attuale alternativa al centro della difesa, è tenero come quel tonno che si spezzava come un grissino, e Romagnoli non è sufficientemente fenomeno per potere reggere da solo, si è visto sul sensazionale gol di Floccari; Theo era in versione scoppiata e se entra Laxalt, beh, ci siamo capiti; e per un Saelemakers che trovi e - udite udite - un Paquetà che per almeno 60 minuti decide di dare un segnale al mondo milanista in attesa da un anno, ecco un Bonaventura che anche a mezzo servizio denuncia pile già scariche, così come hanno fatto passi indietro Rebic, Kessiè e Bennacer. Questo - con la ciliegina avvelenata dello stop di Castillejo - è uno degli aspetti più preoccupanti scaturiti dalla serataccia del Mazza. Il Milan decentemente competitivo è formato dagli undici delle prime partite dopo la pausa, più Leao e Paquetà - forse - , più Ibra, sicuramente. Che questo gruppetto esiguo e certamente non “top level” di giocatori (e di atleti) possa reggere ancora per 9 partite in questi stadi a microonde, non infortunarsi e cercare di esprimere tutta la qualità possibile pare uno di quei gran premi della montagna “hors categorie” del Tour de France. E la prima parte della salita - con Lazio, Juventus e Napoli in sequenza - ha una pendenza spaccagambe, che potrebbe provocare la cotta decisiva. A Pioli serve lucidità (anche lui ha fatto qualche scelta discutibile), ai suoi prodi energia: e a noi tifosi pazienza e fiducia. Per quanto riguarda il realismo, invece, siamo già risintonizzati, grazie carissimo Milan.