La vittoria di Lecce dice che la squadra è ancora sul pezzo e sta anche benino fisicamente
di Andrea Saronni
Già non è facilissimo risintonizzarsi con questo calcio forzato, buttato in piedi al volo dopo la guerra del Covid, gli stadi vuoti, le partite che al minuto 60 iniziano a boccheggiare. Se poi, ad annacquare subito la mezza gioia di una vittoria arriva una notizia come quella di Pierino Prati, ecco che la musica di sottofondo si spegne subito, buonanotte, è la nostalgia - oltre all’umano dispiacere - a prendere il sopravvento.
Piero, come preferiva essere chiamato, è stato il primo giocatore della storia del Milan a farsi crescere i capelli. E questa è una nota importante, una questione importante, mica una curiosità. Perché significa l’appartenenza a una generazione, quella del coetaneo Best, di Cruijff, poco prima di Meroni, ciuffi lunghi e calzettoni abbassati, rappresentanti sul campo di un mondo che stava cambiando tra hippies, ‘68, convenzioni e barriere sociali che venivano giù come rami spaccati dalla tempesta. Pierino, nato nella periferia milanese ancora ricca di campetti e ancora nuda di palazzoni stipa-immigrati, era tendenzialmente un ligio, non un ribelle. Era un giovane, e voleva rimanerlo in un Milan ancora tradizionale e popolato tra l’altro da Nereo Rocco di gente matura, da Cudicini ad Hamrin, da Schnellinger a Sormani. Il principale problema, quando a 21 anni è diventato “Pierino la Peste”, sfondareti 21enne con frangia e occhi azzurri, era abbastanza prevedibile e il Paròn lo marcava come chiedeva di fare sul campo ad Anquilletti o Rosato. “Pierino, doman de sera semo tutti a casa de Schnelinger per una birra”. “Signor Rocco, ma io cosa vengo a fare?”. “Ti comincia a venir, poi vedemo”. Scene da sit-com, di grande successo però. Perché Prati diventò un attaccante letale e il Milan, in due anni e mezzo, vinse tutto quello che c’era da vincere, era una sorta di scultura fatta di granito sotto e di metallo prezioso, di gioielli sopra: l’oro era certamente Gianni Rivera, il diamante che tagliava le porte era lui, Piero. Il numero 10, in venti anni di Diavolo, ha iniziato mandando in gol Altafini e ha finito con Aldo Maldera; se si chiede di indicare chi sia stato il terminale massimo dei suoi lanci, degli assist, delle intuizioni geniali, la risposta è una sola, ed è la Peste, con il quarto e definitivo sigillo della finale della Campioni ‘69 come promo definitivo: Rivera che salta la difesa, dribbla anche il portiere, ma è troppo decentrato per tirare; palla riassestata sul destro, testa altissima, dove è Piero? Eccolo. Scodella perfetta, l’11 arriva come un treno, colpo di testa a incrociare, buonanotte Ajax, buonanotte Cruijff. Poi l’esultanza, la gioia sotto quel caschetto quasi alla Caterina Caselli e il calzettone rigorosamente “a cacaiola”, altro che parastinchi obbligatori e similia. Era una bellissima figurina, Prati, e quando l’hanno frettolosamente mandato via dal Milan, ha lasciato un vuoto enorme, riempito - si fa per dire - dai Calloni, dai Chiodi, dai Blissett. Solo dopo oltre 10 anni di buco, sarà Mark Hateley a fare rivivere ai cacciaviti le emozioni di avere lì davanti un vero attaccante, un predatore delle aree: guarda caso, pure lui aveva i capelli lunghi e se la giocava con le calze abbassate.
È veramente una brutta botta lasciare Piero così presto, in questo momento, quando anche i testimoni viventi di una gloria passata possono aiutare a sbarcare il lunario di un presente modesto e di un futuro che boh. A Lecce è giunto questo successo, per carità meritato, figlio di una partita interpretata con una condotta che almeno ci dice che, a dispetto di valigie già pronte o da tirare fuori dall’armadio, la squadra è ancora sul pezzo e sta anche benino fisicamente. La cosa migliore della serata è stata l’immediata reazione alla rete del pareggio dei salentini, scaturita da uno di quei rigori che ti fa venire voglia di prendere e lasciare il campo. I problemi di questo calcio e del Milan di oggi sono ben altri: però se il trailer arbitrale dell’ultimo pezzo di stagione che ci attende è questo, beh, allora forse sarebbe il caso di ricordare che non bisogna per forza avere in sella il caudillo alla De Laurentiis o alla Lotito, o avere la maglia decolorata per essere rispettati. Tra una riunione con Rangnick e la costruzione dell’ennesimo “progetto” (abusata parola che al Milan fa rima con “rigetto”), Gazidis o chi per lui - non Maldini, perché dovrebbe farlo? - provi a dire pubblicamente due parole sull’argomento. Siamo in Italia, mister Ivan, funziona così.