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Questo è il Milan di Gattuso: il dna non è acqua di rubinetto

Una squadra marchiata a fuoco dal suo allenatore

14 Apr 2019 - 23:31

Il Dna non è mai acqua di rubinetto, e figurarsi se lo può essere quando l'imprinting è di un tipo come Gennaro Gattuso. Milan-Lazio, ce ne fosse stato ancora bisogno, ha dimostrato che nel bene e nel male, piaccia o non piaccia, questa è la squadra di Ringhio, un Milan marchiato a fuoco dal suo allenatore esattamente come quelli di Rocco, Sacchi, Capello. I totem, certo, gente di altro livello Là, si giocava per dominare il mondo, qui si lotta per la quotidianità, per il passettino in più nella interminabile strada del ritorno alla grandezza. Ma come nel caso dei suoi esimi e probabilmente irraggiungibili predecessori, Gattuso entra in campo coi suoi, è sovrapposto alla squadra.

Difficoltà e sacrificio, limiti e abnegazione, errori e mezzi miracoli, unghie e denti, tutti per uno, uno per tutti: la ricetta è una ed è questa, e solo se si prepara correttamente può garantire il sostentamento per arrivare all'obiettivo. Con la Lazio è stato lieto fine, dopo un primo tempo di montagne russe e un secondo a testa bassa. E proprio nella ripresa, tuttavia, anche il Rino che non ti aspetti, quello che nasce quadrato ma, per una volta, muore tondo, tanto per giocare col titolo della sua autobiografia: accusato di avere limiti soprattutto a livello tattico e nella lettura delle partite, di proporre sempre i cambi pera-pera mela-mela, Gattuso ha spiazzato tutti – e soprattutto Inzaghino – trasformando un momento delicato (infortunio di Romagnolj) nella leva per cambiare la partita: difesa a tre, Borini e Laxalt a tutta fascia, Suso e Calhanoglu liberi di muoversi alle spalle della punta. E il babau Lazio si è improvvisamente sgonfiato, colpito e affondato da una squadra in cui alla fine, non casualmente, hanno brillato gli operai, i comprimari, i gattusiani doc. Una menzione la meritano Borini, Zapata che entra dopo una vita, Musacchio che prende il rigore, soprattutto Calhanoglu, pretoriano top del suo allenatore: uno che veste tra molte perplessità una delle “numero 10" più celebrate del calcio e la sta finalmente onorando facendo il numero 8, quello che portava il suo mentore calabrese.

Lo pseudofenomeno disegnato da Max Mirabelli non c'è più – non c'è mai stato –, ma una mezzala che fa l'uomo ovunque per il bene collettivo sì, questa c'è. Della banda fanno parte anche Bakayoko e Kessiè, che purtroppo rovinano molto a fischio finale avvenuto. Proprio un gesto idiota, una bullata senza cervello collegato quella della maglia-scalpo di Acerbi sotto la curva. E guarda caso, la prima voce ufficiale, decisa, dura, senza il minimo “ma-però", è stata sempre quella di Rino. Che è anche e soprattutto etica, lealtà, buon senso, verità senza giri di parole. Le sue pubbliche scuse, la sua cazziata anti-socialpirlaggine valgono come la sua mossa vincente in campo, sono la faccia che si vuole sempre sovrapposta al Milan. Che infatti, oggi, è lui, spiace per coloro a cui ciò non sta bene. Domani, probabilmente, saranno accontentati, e non sarà comunque un giorno felice.

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