L'anniversario della tragedia di Imola offre l'ennesima occasione di riflettere sulla grandezza del campione brasiliano
di Stefano Gatti"La scena alla quale tutti avremmo voluto assistere": si intitola così un'installazione dell'artista Adhemar Cabral che reinterpreta in formato tridimensionale un quadro del pittore lituano OIeg Konin dal titolo "Formula Alone". L'opera ritrae Ayrton Senna mentre si appresta ad abbandonare incolume il relitto della sua Williams, attimi l'impatto contro il muretto della Curva del Tamburello quel fatidico primo giorno di maggio di trent'anni fa. Un sogno e al tempo stesso un incubo per milioni di ammiratori (di più: seguaci) del tre volte campione del mondo brasiliano. "Uma Outra Estória", questo era il titolo della mostra del quale faceva parte l'installazione di Cabral, ospitata ormai qualche anno fa in un grande centro commerciale di San Paolo del Brasile. Tutta un'altra storia, anzi fantascienza. O forse no. Al di là della provocazione artistica, c'è qualcosa di profondo e di profondamente evocativo in quel movimento verso l'alto, nelle mani che si appoggiano alla fibra di carbonio della FW16 maldestramente modificata e nelle braccia che spingono e fanno leva verso l'esterno. Non solo, nella versione 3D by Cabral del dipinto di Konin la mano destra stringe la bandiera austriaca che Ayrton avrebbe voluto sventolare in onore di Roland Ratzenberger, scomparso il giorno prima poche centinaia di metri più avanti alla Tosa: una decisa svolta a destra subito dopo la leggera (e per le monoposto da GP imercettibile) piega sinistrors del Tamburello, eppure lo stesso destino.
© Oleg Konin
Estro creativo, provocazione e storia: trent'anni di storia, un arco di tempo sufficiente e necessario per... pennellare tratti ormai definitivi ad un ritratto fatto e finito. Estro, provocazione e storia: a pensarci bene, sono termini che "appartengono" ad Ayrton. Al suo talento immenso, ad una personalità a tratti insondabile, al suo carisma dentro le piste ma soprattutto fuori. Una dimensione mulktitasking che accomuna solo alcuni dei trentaquattro campioni del mondo della storia della Formula Uno. A nostro parere: Fangio, Clark, Stewart, Lauda, lo stesso Senna, Hamilton.
È stato il ventiduesimo campione del mondo della serie a lasciare la sua traiettoria terrena il primo giorno di maggio di trent'anni fa. Un nome, quello di Ayrton Senna Da Silva, ormai calato nel profondo di un'avventura che ha superato i settant'anni e ha oggi inevitabilmente contorni e contesti molto lontani da quelli di fine anni Ottanta e d'inizio anni Novanta.
Non serve farla tanto lunga: basta pensare alla quasi completa estinzione della scuola brasiliana che - approdata al successo nel Mondiale con Emerson Fittipaldi (tredicesimo campione del mondo) a metà degli anni Settanta - si sarebbe ulteriormente fatta largo con il tris iridato di Nelson Piquet nel decennio successivo, exploit pareggiato da Senna con i suoi tre titoli del 1988, 1990 e 1991. Eccezione che conferma la regola Felipe Massa, che avrebbe in seguito sfiorato l'impresa: nel 2008 con quella Ferrari che Ayrton ha solo accarezzato e mai toccato. Della quale è stato solo avversario sognando di diventarne prima o poi bandiera. Come tanti prima e dopo di lui, come tutti.
Trent'anni sono intanto un tempo più che sufficiente per ripensare con nostalgia e nulla di più a tutto questo, per smettere di tirare Ayrton per la tuta ad ogni anniversario e per considerare "perfetta" (anche senza Ferrari) la missione di Senna: uno di quelli che Dio manda di tanto in tanto sulla Terra per indicare la via. Anche solo una pista possibile, una fonte di ispirazione a fare meglio e di più.
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