Molto legato all'Italia, l'ex-pilota inglese di Formula 1 si è spento nella sua residenza all'Isola d'Elba
di Stefano Gatti“Made It Out Alive”, ne eravamo usciti vivi. Era questo il titolo del docufilm che Rupert Keegan, l’ex pilota inglese di Formula 1 scomparso lunedì 23 settembre all'età di sessantanove anni, aveva dedicato dieci anni fa ai ruggenti anni Settanta del Mondiale, quando ancora era piuttosto raro che una stagione si concludesse senza lutti da pista. Già, suona strano oggi "Made It Out Alive"... Sopravvissuto senza (troppi) danni a quelle sfide al volante di ormai mezzo secolo fa, Keegan ha dovuto infine alzare bandiera bianca nella sua battaglia contro una malattia incurabile, chiudendo per sempre gli occhi nella sua residenza all’Isola d’Elba. Nato il 26 febbraio del 1955 a Westcliffe-on-Sea (nell'Essex, una sessantina di chilometri ad est di Londra, sulla foce del Tamigi), Rupert Arnold Keegan era molto legato all’Italia: la sua adorata Elba appunto ma anche Monza, là dove (oltre alla Formula Uno) lo aveva portato il cuore. E poi gli Stati Uniti: aveva vissuto anche a Miami. In Formula Uno Keegan aveva corso 25 Gran Premi tra il 1977 e il 1982 (più dodici qualificazioni mancate), senza mai disputare una stagione completa e soprattutto senza mai riuscire ad affrancarsi dall'appartenenza a squadre di secondo piano (Hesketh, Surtees, March, la Williams privata della scuderia RAM) che non gli avevano concesso alcuna vera occasione di mostrare fino in fondo il suo potenziale. Certamente sprovvisto del talento di James Hunt (del quale era otto anni più giovane), Rupert era però in un certo senso il “gemello diverso” del campione del mondo del 1976, anno nel quale lui aveva vinto uno dei campionati inglesi di Formula 3 (quello sponsorizzato dalla compagnia petrolifera BP) prevalendo sul nostro Bruno Giacomelli!
Look da rockstar per entrambi, lunghi capelli biondi James, castani Rupert. La stessa fama da viveur, connoisseur of life e tombeur de femmes (fate voi), ma originata da condizioni sociali molto diverse e opportunità… anche. Rupert proveniva da una famiglia agiata, suo padre era titolare di una piccola compagnia aerea, che fu anche uno dei suo primi sponsors. All'epoca (poche storie!) la Formula Uno non richiedeva la preparazione fisica e mentale di oggi e comunque la stessa non era praticata, se non in minime dosi: Rupert faceva volentieri a meno anche di quelle e non si è mai trovato in giro qualcuno che gli desse torto.
Lo stesso appetito di Hunt insomma, ma una “fame” diversa, ciò che aveva inevitabilmente contribuito a fare una grande differenza, almeno fuori dagli autodromi. Non era lui quel "The next James Hunt" che molti tra gli "armchair enthusiasts" suoi connazionali si era augurato potesse diventare.
Inconfondibile in pista per il suo casco arancio brillante con la K stampata… sulla fronte, tanto per restare in tema Keegan lo era anche - nel 1977, la sua stagione d’esordio - per via della “Penthouse Pet” languidamente allungata sul fianco della sua Hesketh blu numero 24 o maliziosamente accovacciata sul muso della monoposto dello stesso team ormai decaduto)con il quale tre anni prima aveva fatto il suo debutto in Formula Uno lo stesso Hunt e che era di proprietà di Lord Alexander Hesketh, lui pure uomo di mondo. La Hesketh Penthouse: qualcosa che nella Formula Uno asettica, sostenibile (ma anche bacchettona e sostanzialmente ipocrita) di oggi non potrebbe esistere e infatti non esiste.
© Getty Images
Parallelamente alla sua poco fortunata esperienza nei Gran Premi iridati, Rupert riuscì a levarsi qualche soddisfazione nella Formula Aurora, il campionato nazionale (britannico) riservato alle monoposto della massima formula “dismesse” dal Mondiale, vincendolo nel 1979 con la Arrows FA1 del Clowes Racing, la monoposto portate l’anno prima in gara nel Mondiale da Riccardo Patrese e da Jochen Mass. Ironia della sorte, il 3 giugno del 1979, proprio al volante della Arrows-Cosworth, Keegan prese parte al Gunnar Nilsson Memorial Trophy di Donington, gara di Formula Uno non valida per il Mondiale organizzata per ricordare il pilota svedese morto a causa di un tumore: la stessa patologia che ha suo malgrado accompagnato Rupert verso l’ultimo traguardo. In quella occasione il pilota inglese si classificò quinto dietro ad Alan Jones, James Hunt, Mario Andretti e a un giovanissimo Nelson Piquet.
© Getty Images
Lasciate le ruote scoperte dopo un breve e infruttuoso passaggio in Formula Indy (Campionato CART), Keegan chiuse la sua carriera con i prototipi del Gruppo C, piazzandosi al quinto posto della 24 Ore di Le Mans del 1983 sulla Porsche 956 Fitzpatrick Racing divisa con i connazionali John Fitzpatrick (titolare del team) e Guy Edwards. Scese ancora in pista con la Lister Storm GT nel 1995, poi Rupert appese il casco al chiodo ma non abbandonò per molti anni ancora (fino a quando la malattia glielo ha permesso) il mondo del motorsport, scendendo in pista nelle gare per vetture storiche o in raduni come il tradizionale Festival of Speed di Goodwood.
Ha detto di lui una volta sir Jackie Stewart: "Non lo conosco bene, ma mi hanno raccontato di alcune sue performances straordinarie. Naturalmente, è anche un buon pilota".
© Getty Images
La sua più grande occasione mancata? Il passaggio sfiorato alla Lotus per affiancare nel 1978 Mario Andretti che si sarebbe laureato campione del mondo al volante della straordinaria Lotus 79, la wing-car con le minigonne resa praticamente invincibile dall'effetto-suolo. Gli venne (comprensibilmente ma anche fatalmente) preferito Ronnie Peterson, che avrebbe perso la vita proprio quell'anno nella carambola multipla al via del Gran Premio d'Italia a Monza.
Chi scrive ricorda Rupert Keegan con dolcezza, nostalgia e la tendenza a gemellarlo con il suo quasi omonimo (e altrettanto capellone) Kevin Keegan, di quattro anni maggiore e mitico numero sette del Liverpool negli anni Settanta. Rupert e il suo casco "bright orange", la magia al di là del talento e poi quella Hesketh "vietata ai minori"che - ai suoi occhi di ragazzino innamorato della Formula Uno - rivaleggiava meravigliosamente con la fiammeggiante e “leonina” Shadow DN9 dell'esordiente Jan Lammers. E che ancora ricorda l’autografo siglato da RK sul suo quaderno a quadretti nel paddock di Monza il primo giorno di prove del Gran Premio d’Italia del 1982, la foto scattata proprio in quella occasione (la trovate al termine di queste righe) e che conserva tuttora gelosamente nel cassetto più profondo. Ancora nella mischia, Keegan, con la pessima ma splendida March 821-Cosworth che Mass aveva abbandonato dopo il suo involontario ma terribile coinvolgimento nell’incidente mortale di Gilles Villeneuve. Appena appena arrotondato, il buon "Rupe", ma la stessa identica leggerezza esistenziale di sempre, lo stesso carisma e lo stesso fascino.
© Stefano Gatti
"Sono stato un uomo fortunato. Mi hanno pagato per girare il mondo e farmi vedere con donne bellissime. E devo ammettere di essermi divertito".
Godspeed, Rupert. Buon viaggio.