Prima da giocatore e poi da dirigente, ha dato tutto e vinto tutto ma nel 2010 c'è stato l'addio dopo il Triplete
L'equilibrio è una dote di pochi, soprattutto quando arriva alla sua massima espressione. Facile perdere il filo del discorso, soprattutto in un mondo tritatutto come quello del calcio. L'equilibrio di Lele Oriali è sempre stato ritenuto fondamentale per chi ha avuto la fortuna di averlo accanto. Una capacità di mediazione che pochi come lui hanno sviluppato, un preziosissimo supporto per allenatori dotati di grandissima personalità, come Roberto Mancini, Josè Mourinho e lo stesso Antonio Conte. Legato indissolubilmente con il cuore ai colori nerazzurri, sembrava davvero fuori posto con altri colori addosso e con altre mansioni. Preziosissimo per chi poteva usufruire dei suoi consigli, ma
stridente con quel sentimento d'amore infinito.
Interista da sempre, dal primo giorno. E nessuno come Lele Oriali ha saputo rappresentare lo spirito umile e un po' operaio dell'Inter anni '70, un'Inter che prima dello scudetto di Bersellini e sotto la presidenza Fraizzoli galleggiava sempre intorno al quarto posto in serie A, facendosi regolarmente sbattere fuori dalle Coppe. Eppure Oriali era un giocatore che piaceva a tutti, che anche Ligabue ha cantato con un verso di "Una vita da mediano", volendo in questo modo rappresentare tutte quelle persone capaci di fare qualcosa di importante ma senza autoelevarsi rispetto agli altri, senza voler apparire come protagonista e figura. A 19 anni marcò Johan Cruyff in una finale di Coppa dei Campioni, un compito ingrato che svolse con dignità e senza protestare. Era giovane ma poteva bruciarsi, perché quel giorno il numero 4 sulle sue spalle troppo spesso arrancava di fronte al numero 14 sulle spalle del fuoriclasse olandese. Invece Oriali ne trasse un insegnamento importante, non si arrese e fece iniziare da lì una lunga e luminosa carriera che l'ha portato a vincere anche il Mondiale 1982. E quel giorno a Madrid era lui che faceva il fenomeno, mentre il baffuto e famigerato Stielike cercava inutilmente di corrergli dietro, riuscendo a prenderlo solo con delle gran scarpate.
Si è sempre fatto apprezzare proprio per queste sue doti di equilibrio e discrezione. Il grande Gianni Brera lo chiamava "Piper" ispirandosi all'omonima marca di champagne, perché nella sua concretezza sapeva anche essere frizzante. Soprattutto nei derby, che l'hanno visto spesso protagonista con prestazioni maiuscole. All'Inter è sempre stato legato da un metaforico cordone ombelicale che non si è mai reciso, nemmeno quando è stato costretto a cambiare colori. Nel 1983 se ne andò da svincolato alla Fiorentina per dare ancora il suo valido contributo nelle ultime tre stagioni disputate da calciatore. Poi un lungo giro formativo nel ruolo di direttore sportivo: Solbiatese, Bologna, strong>Parma, poi Inter dal 1999, fortemente voluto e poi fortemente trattenuto da Massimo Moratti, fino all'apoteosi del Triplete 2010.
Proprio dopo il momento più esaltante, il distacco. Via Mourinho, con l'arrivo di Rafa Benitez il suo ruolo doveva essere ricoperto da Amedeo Carboni, Il Lele non le mandò a dire: "Avevo un ruolo ben preciso nella società, che espletavo nel migliore dei modi, ma di fatto sono stato sollevato da questo incarico, sostituto, diciamo fatto fuori. E' venuta meno la fiducia nei miei confronti, non credo ci siano i presupposti per continuare. Restano poche possibilità che io continui la mia avventura all'Inter, credo di essere arrivato al capolinea". Qualche anno ai margini, con ruolo anche di opinionista su Premium Sport, poi la nomina a team manager della Nazionale A da parte dell'allora presidente federale Carlo Tavecchio, a fianco del commissario tecnico che guardacaso era Antonio Conte. Nel maggio del 2017 sembrava a un passo dal ritorno all'Inter, poi però la proprietà cinese ha preferito puntare su Walter Sabatini affidandogli il ruolo di consulente per tutto il Gruppo Suning. In quel momento ci rimase male, ma adesso lo chiama anche Conte e ad Antonio è difficile dire di no.