Nel gennaio del 2004 arriva in un Barcellona in crisi e grazie a lui Rijkaard riesce a dare nuovo equilibrio alla squadra
Un olandese, arrivato a de-olandesizzare la squadra, viene salvato da un olandese. Quello che sembra puro non-sense è invece la sintesi estrema, e anche un po’ brutale, della prima stagione di Frank Rijkaard sulla panchina del Barcellona, nonché dell’esperienza in blaugrana di Edgar Davids, uno degli oranje meno celebrati ma di maggior spessore che abbiano indossato la maglia di un club che ai Paesi Bassi deve tantissimo.
Nella stagione 2003/04 Davids, arrivato come rinforzo a gennaio, gioca 20 partite, segna un gol e non vince nulla. Ma il Pitbull non è mai stato un giocatore da statistiche e almanacchi, e nonostante sia tuttora l’olandese che abbia giocato meno partite di tutti con il Barcellona (con Frenkie de Jong il numero di tulipani culé è salito a 20), merita un posto tra i grandi del club. Un raro caso di altissima concentrazione di qualità compressa in un tempo estremamente limitato.
Davids arriva in Spagna a metà stagione in prestito con lo status di persona non grata presso la società che ne detiene il cartellino, ovvero la Juventus. Un piccolo deja vu di quando, sette anni prima, era sbarcato a Torino dopo sei pessimi mesi al Milan, dove era stato pubblicamente etichettato da Alessandro Costacurta come “mela marcia” dello spogliatoio. Alla Juventus non è così, viste le stagioni di grande profilo disputate in bianconero, però con il tecnico Marcello Lippi qualcosa si era nuovamente rotto in un rapporto sempre caratterizzato da alti e bassi. Nell’estate del 2003 la Juventus aveva acquistato dal Brescia Stephen Appiah e Davids era finito in panchina, bollato come “acqua passata” dal tecnico viareggino. Quando arriva la chiamata di Rijkaard, alla disperata ricerca di un tipo “alla Roy Keane” per il suo Barcellona, Davids non ci pensa due volte.
Nel suo fondamentale libro “Il Barça”, Sandro Modeo afferma che a Barcellona Rijkaard ha eliminato le scorie di una filosofia “isterica, narcisistica e vittimistica”. Al suo arrivo, la squadra era reduce dal peggior piazzamento in classifica degli ultimi quarant’anni, frutto di una stagione tormentata sotto ogni profilo: in panchina Louis van Gaal era stato sostituito a inizio 2003 da Radomir Antic (con breve intermezzo di Antonio de la Cruz come traghettatore), mentre a livello societario i cambi in corsa era stati addirittura quattro (Joan Gaspart, Enric Reyna, quindi una commissione speciale per transitare la società a nuove elezioni che videro il successo di Joan Laporta).
Ma Rijkaard non poteva certo vantare un passato recente più positivo, visto che era reduce da una retrocessione nella B olandese con uno Sparta Rotterdam in formato colabrodo (75 reti incassate in 34 partite) e porto di mare (31 i giocatori utilizzati, tra i quali un crepuscolare Aron Winter). Per questo motivo il 23 luglio 2003, giorno della sua presentazione ufficiale in Catalogna, Rijkaard pronunciò una frase che si prestava a più letture. “Conosco il passato”, disse, “e sono consapevole di ciò che accaduto la scorsa stagione. Ma non mi interessa assolutamente niente”.
A dicembre il Barcellona scende in campo per il Clásico casalingo con un abbottonatissimo 4-4-2 dove la linea mediana è composta da Xavi, Cocu, Thiago Motta e Gerard. Reduce da due sconfitte consecutive, tra cui un 5-1 contro il Malaga, Rijkaard e il suo assistente Henk ten Cate si trovano ad agire in piena modalità sopravvivenza. Non stava funzionando niente: la difesa a tre, il tridente, le due punte. il doppio mediano, il tanto atteso Ronaldinho – arrivato dal PSG dopo il mancato acquisto di David Beckham, finito al Real Madrid nonostante fosse uno dei perni della campagna presidenziale di Laporta. Il Barcellona, a dispetto di una rosa eccellente (oltre ai nomi citati c’erano Overmars, Kluivert, Van Bronkhorst, Saviola, Puyol, Luis Enrique, Quaresma), non aveva equilibrio. “Ho bisogno di un giocatore alla Roy Keane”, aveva dichiarato Rijkaard a ottobre al settimanale VI, “che mi permetta di togliere un mediano in mezzo al campo e rendere sostenibile il 4-3-3”. Tornando al Clásico, il Real Madrid espugna il Camp Nou 2-1 e spinge il Barcellona all’11esimo posto nella Liga. Niente alibi per il vittimismo, benzina sul fuoco per l’isterismo.
Davids debutta con il Barcellona il 17 gennaio 2004 contro l’Athletic Bilbao in un moscio pareggio casalingo (1-1) che, quantomeno, interrompe il filotto di sconfitte, incrementatosi all’inizio dell’anno nuovo da uno 0-3 inflitto dal Racing Santander che aveva fatto scivolare la squadra al 12esimo posto. Quella del Sardinero sarà l’ultima sconfitta dei blaugrana fino a metà maggio, quando una serie di 16 risultati utili consecutivi (12 vittorie e 4 pareggi) porteranno la squadra dalla metà bassa della classifica al secondo posto finale, alle spalle del solo Valencia. Gli uomini di Rijkaard vincono tutti i big match: Siviglia (1-0), Atletico Madrid (3-1), Valencia (1-0), Deportivo La Coruna (3-2), Real Madrid (2-1).
Quella del Santiago Bernabeu è la partita-manifesto del nuovo corso intrapreso dal Barcellona di Rijkaard dall’arrivo di Davids. Il suo collocamento come interno sinistro con qualità da incursore box-to-box in fase di possesso e quantità da incontrista in quella di non possesso, permette a Rijkaard di schierare un solo giocatore di contenimento in mediana (Cocu), permettendo a Xavi – interno destro – di focalizzarsi sulla sua visione geometrica totale, e a Van Bronckhorst di proporsi in fascia con maggiore continuità, arrivando ad agire da ala aggiunta.
Ma è Ronaldinho l’elemento che beneficia più di tutti dell’equilibrio che caratterizza il nuovo assetto della squadra: partendo da sinistra, ma in realtà libero di andare dove lo conducono talento e ispirazione, il brasiliano cancella una deludente prima parte di stagione (appena 5 le reti segnate, tante quante le sostituzioni subite) con una seconda parte chiusa in doppia cifra (10 gol). La prima rete del Bernabeu, che pareggia il vantaggio firmato da Solari, è frutto del tipico movimento in verticale di Van Bronckhorst, con assist sfruttato a dovere di Kluivert. Il gol partita arriva invece da una raffinatissima triangolazione Xavi-Ronaldinho-Xavi, con il brasiliano che mette il compagno davanti al portiere con un morbido di lob che lascia la difesa dei blancos di sasso.
“Davids è stato contemporaneamente un perno e una scintilla”, ha ricordato Rijkaard. “Mi ha permesso di sistemare l’assetto tattico e, contemporaneamente, grazie alla sua mentalità ha agito da esempio per tutti i compagni di squadra. Sono consapevole che sembra una ricostruzione fin troppo semplicistica, ma è la pura verità”. L’anno successivo il Barcellona vincerà la Champions League, e con Rijkaard arriveranno anche due titoli nazionali, i primi dopo sei anni di digiuno. Nascerà la dorsale Marquez-Xavi-Deco, con la freschezza di Iniesta quale prima risorsa da estrarre dalla panchina, e ai margini del tridente Giuly-Eto’o-Ronaldinho si affaccerà in prima squadra Leo Messi, che alla penultima giornata di Liga segnerà all’Albacete il suo primo gol in maglia blaugrana. Anche i colori si mischieranno, con l’arancione destinato a diventare marginale: dopo Frank de Boer nel 2003, saluteranno la squadra Cocu, Kluivert, Davids, Overmars e Reiziger. “Se devo pensare a quando è cominciato il tutto”, ha ripetuto più volte Xavi, “allora torno alla prima metà del 2004, a quei mesi dove abbiamo ritrovato fiducia dopo anni difficili, e alla vittoria in casa del Real Madrid”.
Davids non ha nemmeno sfiorato i glory days del Barcellona. Voleva un contratto top e la migliore offerta in assoluto arriva dall’Inter. Dopo 181 giorni lascia il Camp Nou e torna in Italia.