Mentre Federico Chiesa è in piena ascesa tra Juventus e Nazionale, vale la pena ricordare due o tre cose del padre Enrico, attaccante moderno che ha avuto una carriera ricca di cose buone e saporite, tanti gol e poche chiacchiere
Essere figli d’arte, talvolta, complica la vita. L’ombra del genitore famoso può diventare un pesante fardello. Il paragone è sempre dietro l’angolo. Meglio prendere le distanze, come fece Jordi Cruyff che mise sulla maglietta il suo nome di battesimo e festa finita.
Altri hanno dovuto sfatare pregiudizi e malelingue. Ne sa qualcosa Sandro Mazzola di Valentino, sul quale agli inizi di carriera ha pesato la patente del raccomandato: “Se si chiamasse Pettirossi”, questo il velenoso titolo di un articolo pubblicato su uno dei massimi quotidiani dell’epoca durante il suo primo anno all’Inter, 1962.
Molto meglio essere padri d’arte, perché l’amore filiale riempie due volte il cuore e moltiplica l’orgoglio paterno. Anche quando l’allievo supera il maestro. Esempi nobili ne abbiamo avuti, Cesare Maldini su tutti. Adesso è il turno di Enrico Chiesa, babbo di Federico, l’enfant prodige del calcio italiano, per un sorpasso ai "danni" del babbo che si sta completando grazie alle prodezze in maglia bianconera e la stabile presenza tra gli azzurri di Roberto Mancini.