Il 20 gennaio 1985 il Milan gioca in trasferta a Udine. In panchina si siede un ragazzo di 16 anni dall’aspetto mite e dalle generalità ingombranti. Perché quello di Maldini è un cognome difficile da portarsi dietro
Quel giorno la squadra di casa è orfana di Zico, ma in campo l’assenza non si avverte. Il primo tempo finisce 1-0 per l’Udinese, rete di Selvaggi, e il passivo per il Milan potrebbe essere peggiore. A inizio ripresa, complice l’infortunio del centrocampista Battistini, Liedholm deve ridisegnare le geometrie tattiche e fa scaldare il ragazzino. Longilineo, scattante, di una naturale eleganza nei movimenti. Il piglio è un po’ quello di Cesare Maldini, suo padre: grinta, umiltà, capacità di farsi trovare pronto in ogni momento. La voglia è quella di dimostrare al tecnico che avere 16 anni non è una colpa: su di lui si può contare già da ora.
Sarà forse un caso ma nel secondo tempo è un altro Milan. La partita finisce 1-1 grazie al pareggio dell’inglese Hateley, la squadra rossonera ha una certezza che va oltre il risultato. Il ragazzino entrato in campo nella ripresa farà strada. Unisce senso tattico e forza fisica, manca l’esperienza ma di certo non ha paura di nessuno. Sembra possedere una personalità strutturata e dalla linea della difesa non sbaglia un intervento. In anticipo è impeccabile, così come nel gioco aereo. Giocherà perché è bravo, non perché di cognome si chiama Maldini.