Il portiere moderno, pur rimanendo singolo, si trova quasi accanto agli altri
Il portiere, quando subisce un gol, è preso da senso di colpa, si sente un incapace, uno che ha commesso un danno, te ne accorgi quando invece del pallone esce dalla porta per andare a raccogliere la bottiglina d’acqua che ha accanto al palo esterno più per espiazione che per dissetarsi; lo sventurato svita il tappo e comincia bere, a piccoli o grandi sorsi, prima di tornare in campo. Il portiere, dopo la rete, beve per pulirsi, vuole liberarsi da quell’errore anche se è stata una prodezza balistica, anche se non c’era niente da fare, ha bisogno di rimettere le cose a posto nella sua coscienza.
Non è facile essere portiere quando si ha il sole in faccia o la pioggia sulle ciglia, quando il vento è contro o anche a favore, quando c’è neve o fango e lui non sa cosa fare tra i pali. Una volta i portieri usavano il cappello, Luciano Castellini, quando l’avversario puntava verso di lui, aveva l’abitudine di toglierselo e gettarlo via ogni volta per andargli incontro e provare a fermarlo; oggi il cappello è sparito, come se gli occhi dei portieri si fossero abituati alla luce più intensa. Succede spesso che quando la difesa salva dal pericolo il portiere batte forte i guantoni l’uno contro l’altro e poi grida, per dire che lui è ancora vivo.