Per l’attaccante danese, morto nel 2002, si è parlato di suicidio ma ora...
“Tutto è cominciato con un caffè non pagato al bar, ma poco tempo dopo ha dimenticato se stesso”. Camilla, la figlia maggiore, inizia così il racconto di papà John, morto nel 2002 ad appena 44 anni. C’è un tono di orgoglio e di grande contegno nella sua voce, anche se è facile intuire il dolore che continua a torturarla interiormente. “Bisogna voltare pagina, abbiamo scelto di guardare oltre, ma resta ancora oggi l’incredulità che un uomo così giovane possa essersi ammalato di Alzheimer. Una malattia che l’ha sbriciolato in appena cinque anni”.
Camilla, di professione ostetrica, ha deciso soltanto oggi di raccontare la verità e di spazzare via tutte quelle terribili voci e leggende metropolitane che volevano suo padre morto suicida dopo una forte depressione. In realtà John Eriksen aveva una gran voglia di vivere. Dopo aver smesso con l’agonismo si era trasferito con la famiglia da Aahrus, la città delle fiabe, nella piccola Svendborg, per allenare la squadra locale in seconda divisione. “Aveva progetti importanti, ma pochi mesi dopo l’inizio della nuova avventura si sono manifestati i primi segni della malattia”.
Eriksen, nato nel novembre del 1957, è stato uno degli attaccanti più forti della storia del calcio danese. Da atleta ha vestito le casacche di Odense, Roda, Mulhouse, Feyenoord, Servette e Lucerna. Con il club di Ginevra nel 1988 ha persino vinto la scarpa d’argento europea (36 gol) come miglior predatore d’area dietro Marco Van Basten. Un centravanti completo, letale, che però è nato forse in un momento sbagliato. La sua strada in nazionale infatti è stata in parte chiusa da Laudrup, Elkjaer e Simonsen, autentici colossi del pallone mondiale. Eppure uno spazio Eriksen se l’è ritagliato, partecipando ai mondiali messicani e agli Europei di due anni dopo in Germania. In tutto 17 presenze, 6 gol, e l’ultima gara ufficiale giocata a Colonia contro l’Italia di Vicini.