Panorami, incontri e riflessioni in libertà lungo rampe e sentieri dell'ormai classico evento valdostano
di Stefano Gatti© Monte Zerbion Skyrace Press Office
“Dai dai dai, che mancano solo centoventi metri!”. Nel bel mezzo di un indistinto e assordante concerto di campanacci in mezzo alle nuvole, ecco invece distinguersi il solito dilemma: saranno centoventi di sviluppo o di dislivello? Che poi in questo caso il rapporto sia quasi di uno a uno (nel senso dei metri) è fortemente indicativo del carattere estremo della prova, o meglio delle caratteristiche del canalone di Levò, passaggio chiave e cuore pulsante (molto pulsante, spero che il mio medico sportivo non legga queste righe!) di Monte Zerbion Skyrace, quarta delle nove tappe di CRAZY Skyrunning Italy Cup che nel weekend centrale di maggio ha richiamato a Châtillon oltre seicento skyrunners di ogni età, ambizione e possibilità. Metà dei quali impegnati nella prova-clou originariamente destinata a toccare il suo GPM ai 2722 metri di quota del Monte Zerbion, la panoramica vetta in corrispondenza della quale il fondovalle principale della Valle d’Aosta fa per così dire “perno”, ruotando di una novantina di gradi verso ovest, salutando la… rotta per Cervino e Monte Rosa per puntare senza più indecisioni verso il Monte Bianco, dopo essersi lasciata alle spalle il Gran Paradiso.
© Stefano Gatti
Raggiungo Châtillon un paio d’ore dopo aver lasciato la redazione e - per i consueti quattro passi dopo cena - vado in ricognizione al campo base e villaggio gara di Piazza Volontari del Sangue. Il vigilante appostato ad un angolo del piazzale mi guarda strano, mentre scatto qualche immagine da… calma prima della tempesta: solo metaforica, mi raccomando!
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Ci mancherebbe altro, dopo l’ennesima sfuriata di questo… "maggembre" che nei giorni scorsi ha depositato in quota un quantitativo di neve fresca più che sufficiente per costringere gli amici organizzatori di Montagnesprit a cancellare (per il secondo anno consecutivo) il passaggio in vetta allo Zerbion. Pazienza, è un buon motivo per tornare a Chatillon per la quarta edizione. Tipo: cosa ne dici di un weekend in Valle d’Aosta il prossimo mese di maggio, cara? Ah, già che ci siamo, ne approfitterei per una garetta sulle montagne intorno! Garetta? Nel 2025 Monte Zerbion Skyrace farà un ulteriore salto di qualità verso l’alto, promosso al rango di tappa di Skyrunner World Series, il circuito iridato sancito da ISF (International Skyrunning Federation).
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Non prima di aver incrociato l’amico Gianluca Ghiano (atleta azzurro che all’indomani si arrenderà al solo Nadir Maguet nella gara-clou, e solo nelle ultime centinaia di metri), riprendo possesso del mio alloggio all’Hotel Rendez-Vous e la mattina della gara (meno di due ore al via) faccio colazione nella saletta ristorante al tavolo a fianco di quello di Maude Mathys e Hillary Gerardi, tra poche ore prima e seconda del Vertical valido per VK Open Championships by ISF. In questo caso… I casi sono due: o l’autostima schizza a fondo scala, oppure - per dirla con Bruce Chatwin - ti trovi a pensare... “What Am I Doing Here”. Scelgo la prima, altrimenti dovrei alzarmi, stringere la mano a Maude (attuale capoclassifica di Golden Trail Series) e alla statunitense ma ormai francese d’adozione Hillary, raccogliere le mie cose e imboccare a ritroso l’autostrada lungo la quale - solo un giro d’orologio fa - ho tutto ad un tratto inquadrato “Sua Ripidezza” la cresta che porta dritta alla vetta dello Zerbion, “identificandone” con buona approssimazione e disegnandovi mentalmente sopra la linea rossa della traccia di gara. Con tanto di sospirone finale.
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Città del miele: questo uno degli appellativi di Châtillon: ne servirà tanto per addolcire e ammorbidire le fatiche di una prova che in fondo - rispetto al programma iniziale (22 chilometri e 2200 metri D+) - ha perso per strada solo un chilometro di sviluppo e duecento metri di salita. Integrità tecnica della prova salvaguardata (“grazie” anche alle condizioni meteo belle dure) ma soprattutto sicurezza garantita - entro i limiti di una prova di questo genere, si capisce - da parte dello staff di Montagnesprit guidato dal pioniere dello skyrunning Bruno Brunod e dall’amico Dennis Brunod, lui stesso skyrunner e scialpinista di chiara fama, oggi amministratore regionale e… navigatore del pilota di rally Fabrizio Duclair, lui pure attivamente impegnato nell’organizzazione di un evento che deve fare a meno di Jean Pellissier, scomparso lo scorso autunno ma straordinariamente presente anche in questa occasione. Nei pensieri, nelle riflessioni e nelle preghiere. Credo anche lungo i sentieri e soprattutto lassù in cima allo Zerbion: in un’altra dimensione (che noi infatti noi quest’anno emblematicamente non raggiungeremo) ma al tempo stesso non così lontano, ed è anche per questo che sarà bello provarci l’anno prossimo.
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Entro abbastanza presto in griglia di partenza, subito dietro allo spazio riservato ai toprunners, per provare ad evitare almeno in parte la bagarre del via. Le prime centinaia di metri su asfalto, forse il primo chilometro dopo il via, sono il solito cancan a quattro minuti al chilometro, sgomitando a destra e a sinistra per pagare il meno possibile l’imbuto dei primi metri di sentiero.
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Okay, mi hanno passato a destra, a sinistra, di sopra e di sotto. Sono già nella seconda metà del gruppone, e ti pareva! Mulattiera e sentiero, fuori i bastoncini: un carnaio di centinaia di coppie di polpacci e di caviglie infilzati allo spiedo dalle punte dei suddetti bastoncini. Subisco qualche stoccata ma ne assesto anch’io una mezza dozzina! Finisce che me ne autoinfliggo un paio: non si spiegano diversamente due ferite all’interno delle caviglie che scoprirò solo a sera inoltrata. Raggiungiamo e superiamo Francis Desandré e Milena Bethaz, in gara nel Vertical breve aperto da quest’anno anche ai runners diversamente abili. Li salutiamo con sincera ammirazione e lei per tutta risposta (e a ragione) ci ammonisce bonariamente: “Tieni il fiato, che ti serve!” Quanto è vero…e quanto lo sarà a maggior ragione poco più avanti!
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La leggerezza “oltre la fatica” indotta dall’incontro con chi - svantaggiato dalla sorte - si getta nella mischia senza paura, si scontra a stretto giro di sentiero con l’incredulità (la mia) nell’ascoltare salendo verso Nissod le farneticazioni di chi (parlando con altri ma subito alle mie spalle e non conoscendomi…) millanta la partecipazione ad una recentissima prova endurance vista lago. Mi bastano pochi indizi per fare due più due (più tardi per sicurezza controllerò le classifiche, trovando conferma alle mie perplessità) ma preferisco tirare dritto per la mia strada. L’amarezza però rimane (di miele qui ne serve veramente tanto) e fa stridente contrasto (anzi, proprio a pugni) con il virtuoso incontro precedente con Milena, Francis e i loro amici.
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Volto pagina, smarco sbuffando il traguardo del Vertical breve di cui poco sopra a Nissod e poi punto al ristoro di Tsesallet, dove si separano le strade di chi è in gara nella skyrace d’ingresso da diciotto chilometri e di chi - come me - ha scelto la prova-clou che è quest’anno per cause di forza maggiore di poco più lunga (nemmeno due chilometri) ma moooolto più impregnativa.
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Al tavolo della telecronaca streaming live c’è l’amico e collega Christian Leo Dufour. “Dufour come la punta più alta del Monte Rosa!”, aveva precisato Christian presentandosi un paio d’anni fa all’inizio del suo stage a sportmediaset.it, con citazione alpinistica che verosimilmente ero stato l’unico a capire. Caro Christian, spero tu possa tornare da noi perché - per come la vedo io - c’è un gran bisogno di bilanciare con umiltà e disponibilità ad imparare l’abbondanza di chi approda qui “oggi con decorrenza domani” e purtroppo ha la presunzione di saperla più lunga di chi ha quarant’anni di “mestiere” alle spalle!
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Traversiamo a mezzacosta e in leggera discesa in direzione di Levò ma il… sollazzo è di breve durata e si interrompe bruscamente all’attacco del canalone che - lassù a metà della sua rampa - sembra sparire nel nulla, inghiottito dalla nebbia. Per quanto largamente previsto e in un certo senso addirittura… pregustato, il cambio di marcia e di assetto è improvviso e violento. Qui si tratta proprio di ingranare le ridotte. Un chilometro e duecento metri circa di sviluppo per seicentotrenta metri di dislivello positivo. I conti sono presto fatti: la pendenza (media) supera il cinquanta per cento!
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I cartelli che indicano - cento metri alla volta - il dislivello già messo in saccoccia (è la prima volta che lo vedo segnalato con tanta puntualità) si succedono… molto più lentamente di prima! La salita è ripidissima, alterna stretti canalini dove ci si aiuta con le corde (e il conforto dei volontari) ad altri più aperti ma il pendio resta implacabile e a rendere la missione ancora più dura è l’assenza pressoché totale di un vero e proprio sentiero. Si procede dritto per dritto, spingendo sui bastoncini, mettendo praticamente ogni singolo passo su minuscoli ripiani tra l’erba dell’anno scorso (ancora piegata dal peso della neve), quasi infilando ogni volta le scarpe dentro le staffe di una sella. Rallento il passo e cerco di trovare un ritmo il più possibile regolare, per quanto lento, evitando di guardare troppo oltre i prossimi metri. Anche perché a tratti l’erta è così in piedi da sbilanciarsi all’indietro alla minima distrazione.
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Quelle poche volte che capita (di alzare lo sguardo da terra), lo scenario è quello di una fila di skyrunners che procedono uno dietro l’altro: altrettanti dannati (magnifici dannati, s’intende) di un girone dantesco - questa la prima associazione di idee che mi viene in mente - nel quale tutti coloro che in vita hanno osato mettersi sullo stesso piano dei toprunners sono appunto condannati a rimontare per intero il canalone per poi… ritrovarsene ogni volta alla base ed essere costretti a ricominciare daccapo! Per fortuna non è proprio così e - pochi minuti dopo essere sbucato dall’ennesimo canalino (rantolando un sofferto “ciao, grazie” all’onnipresente amico Stefano Mottini che mi ha indicato dove appoggiare i passi) - eccomi uscire finalmente sul filo della cresta, en plein air: non ci speravo quasi più!
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Un rapido sguardo sulla destra al tratto finale della cresta verso la vetta (“ci si vede l’anno prossimo”) e poi, dopo aver sormontato un tratto della stessa “diversamente” discendente, ci lanciamo tutti quanti giù per l’ampia sella imbiancata, così diversa dal terreno che abbiamo lasciato, dove la neve non aveva proprio possibilità di depositarsi! Sperando che Mottini e i suoi collaboratori - che nelle scorse ore hanno scavato un camminamento nella neve stessa - non se ne abbiano a male, preferisco “surfare” nella neve alta: mi trasmette più sicurezza. Poche centinaia di metri e siamo prima tra i mughi e la bassa vegetazione, poi rapidamente nella foresta. Dalla quale usciamo una prima volta e brevemente all’altezza dell’alpeggio di Francou, dove ci aspetta un ricco ristoro allestito al coperto, dentro la lunghissima costruzione di una stalla che solo tra qualche settimana (immagino) sarà popolata dal bestiame: davvero spettacolare e di atmosfera!
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Al sentiero single track si alternano lunghi tratti di strada bianca e di mulattiera. Di solito il rientro alla base in questi percorsi ad anello coincide per quanto mi riguarda con un repentino (e purtroppo irreversibile) calo di motivazioni. Non oggi, però: oggi è diverso e le energie (quelle mentali almeno) sembrano aumentare con l'abbassarsi della quota e l'approssimarsi del traguardo con i suoi colori, le sue voci e i odori. Ci abbassiamo rapidamente e attraversiamo anche la località di Promiod dove, oltre che del ricco ristoro, approfitto abbondantemente della freschissima acqua di una fontana per bere e bagnarmi senza ritegno. Proprio quello che ci voleva, perché da qui al traguardo vado ancora in progressione, migliorando di una decina di posizioni la mia classifica finale che modestissima era e tale rimane!
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Le prime case di Chatillon e l’ultimo chilometro di gara arrivano quasi senza pensarci: è un bel modo - e spensierato - di raggiungere il traguardo, bloccare il cronometro, appoggiare i bastoncini a terra e sedermi sull’asfalto a contemplare… l’infinito, attaccandomi al collo di una meritata acqua tonica (calma, calma, poi tocca alla birra!) e strizzando l’occhio dal basso verso l’alto all’amico (quanti ne ho da queste parti) Silvano Gadin che percorre avanti e indietro l’area d’arrivo, raccontando con il suo stile inconfondibile piccole e grandi storie di sport, passione e condivisione.
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Da parte mia… sono già oltre, purtroppo. Con il pensiero già proiettato alla prossima, ma intanto inesorabilmente atteso al varco da quei “lunedì mattina imprigionati dentro un febbraio senza fine. E non c’è verso di voltare pagina, non esiste un rimedio miracoloso, gli effetti sono solo temporanei”.
All my mornings are Mondays stuck in an endless February
I took the miracle move-on drug, the effects were temporary
(“Fortnight” - Taylor Swift feat. Post Malone)
© Stefano Gatti