Tra le donne sono state la britannica Emma Stuart e l'elvetica Florence Golay-Geymond a fare la differenza
di Stefano Gatti© S. Gatti
Ci sono giganti e giganti: quelli di roccia, neve e ghiaccio… quelli di carne, sudore e fatica. Si incontrano ogni anno alla fine dell’estate in Valle d’Aosta. Sono quattro i primi, sono alcune centinaia quelli che puntano ad esserlo (ma non tutti ce la faranno). Ogni anno a settembre il Tor des Géants nei suoi vari formati di gara “ingaggia” migliaia di trailrunners su e giù tra le vallate che conducono ai piedi di Monte Bianco, Gran Paradiso, Monte Rosa e Cervino, in stretta ordine di apparizione lungo il percorso delle Alte Vie Due e Uno della Valle d’Aosta. Per poi chiudere l’anello di ritorno al campo base di Courmayeur e di nuovo al cospetto del Bianco. Proprio sulla massima elevazione alpina è culminata la nostra esperienza multitasking con gli amici di Karpos: una due giorni outdoor per seguire le battute iniziali del Tor des Géants TOR330 e poi appunto sul versante italiano del Bianco, fino ai 3500 metri di Punta Helbronner, raggiunta con la spettacolare Skyway. Sport e scienza, presente e avvenire, spensieratezza da “qui e ora” alternata a uno sguardo allarmato ma consapevole sul futuro del nostro pianeta.
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"Standing On The Shoulder of Giants", il titolo di uno degli album di maggior successo degli amatissimi Oasis, mi gira in testa mentre ripenso al tour de force all’inseguimento - letteralmente - dei protagonisti del Tor des Géants numero tredici. Lo trovo adatto al contesto e ai suoi attori. Domenica 10 settembre di buon mattino. Lo scenario è in qualche modo straniante e per quanto mi riguarda anche inatteso. Certo, non mancano all’ingresso di Courmayeur i riferimenti di vario tipo all’evento e - avvicinandoci al Jardin de l’Ange - gli ultimi turisti della stagione estiva (in schiacciante maggioranza stranieri) si mischiano con gli atleti che si dirigono verso la zona di partenza. Ma è lungo lo stretto e caratteristico budello della centralissima via Roma che la febbre-Tor si impenna rapidamente e - superata Piazza Abbé Henry - ecco apparire la successione di gonfiabili multicolori prospetticamente disposti lungo Viale Monte Bianco (e dove, se non qui?). Sotto di loro la marea degli aspiranti giganti e… di quelli che lo sono già. Lo show che precede la partenza impazza e Silvano Gadin è il suo profeta, ben spalleggiato dall’inconfondibile Ivan Parasacco. Solo Franco Collé e pochi altri qui in mezzo sono più popolari di loro!
A proposito, alla caccia del suo poker di successi, il mitico Franky è già in prima fila insieme agli altri top runners. Ho la fortuna e il privilegio di salutarlo e di augurargli in bocca a lupo ad una manciata di minuti dal via e in buona sostanza rimango lì fino a quando non vengo gentilmente invitato a farmi da parte. Al segnale di partenza, sciamano tutti in gruppo per le vie di Courmayeur facendo tremare l’asfalto. Al nostro gruppo sovranazionale (siamo italiani, austriaci, spagnoli e andorrani) noi non resta che… cercarci, radunarci e poi partire al loro inseguimento.
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Prima di “doppiare” la vicina Pré-Saint-Didier (porta d’accesso alla Valle di La Thuile), ho il tempo di una rapida riflessione-confronto con le operazioni di partenza di UTMB Ultra-Trail du Mont-Blanc nella dirimpettaia Chamonix, alla quale ebbi il modo di assistere quattro anni fa. Occorre essere onesti e abbandonare qualsiasi tentazione di campanilismo: pathos e spessore di quanto da me vissuto nel 2019 nella Place du Triangle de l’Amitié di “Cham” sono al momento decisamente inarrivabili, ma il Tor ha margini di crescita e l'imperativo di rinnovarsi.
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È anche questione di cultura: nella vicina Francia il trail viaggia (anzi corre) ad un altro livello, raggiunge picchi di popolarità e scala vette di passione che non temono confronti al di qua dello spartiacque principale dell'arco alpino. UTMB vale una partita della nazionale di calcio (francese, intendo) e magari anche di quella di rugby, che per i nostri "cugini" è sport nazionale. Da questa parte delle Alpi non è così e per motivi ormai storicamente consolidati (il calcio è un religione, tutto il resto eresia) non lo sarà mai. Questione di cultura sportiva, appunto. Non ne faccio certo un colpa al Tor des Géants che - bilinguismo di queste valli a parte - significativamente si chiama così e non “Giro dei Giganti”.
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La carovana Karpos&Friends punta intanto baldanzosamente e tornante dopo tornante verso Baite Youla, primo rendez-vous possibile con la testa della corsa. La giornata è calda, rallenta impercettibilmente i top runners, regalandoci qualche minuto in più per precedere questi ultimi (mai termine fu più sbagliato!) al punto di ristoro. Svalicano nel Vallone di Youla attraverso il Col d’Arp e ci raggiungono nel giro di pochi minuti: Collé apre il gruppetto dei leaders che ha già operato una prima selezione sul… resto del mondo. Con lui c’è Andrea Macchi che gli darà filo da torcere nella prima metà della gara, prima di cedere al francese Romain Olivier il compito di complicare al campione di Gressoney la ricorsa al poker di vittorie.
Abbandoniamo questo angolo di paradiso per scendere verso il fondovalle di La Thuile e visitare velocemente la prima base-vita della gara. I battistrada hanno ulteriormente allungato il passo ma faccio in tempo a salutare le amiche-colleghe Tatiana ed Enrica, separate tra loro da pochi minuti. Le invidio un po’, ma solo per la possibilità di far parte di tutto questo e del suo contesto. Perché poi invece lo spirito di competizione - quello vero, l’unica benzina compatibile con il “motore” di alcuni tra noi - è ristretto a una manciata di toprunners e per tutti gli altri il Tor è un viaggio. Anzi, come ho sentito più volte dire da chi la sa lunga, una "camminatona”. In ogni caso, Tatiana sarà per il secondo anno consecutivo finisher, mentre Enrica sarà addirittura 133esima al traguardo. Complimenti e applausi ad entrambe!
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Intanto La Thuile è già un ricordo. Next stop Arvier, dove la selvaggia Valgrisenche intercetta il fondovalle principale. La prima meta è il borgo di Planaval che posso finalmente apprezzare in versione estiva (vabbeh, tardoestiva), dopo essere passato da queste parti in occasione di un paio di press days del Tour du Rutor, la classica scialpinistica del calendario La Grande Course, su invito di Marco Camandona e della instancabile Barbara Luboz. Le viuzze del borgo stesso e i prati che lo circondano sono affollati di turisti, appassionati e accompagnatori dei concorrenti.
Collé e soci ci hanno nuovamente preceduto ma il Tor - per quanto scritto poche righe sopra - non sono solo loro, quindi facciamo quattro conti e “stabiliamo” che possiamo almeno indugiare a Planaval per incoraggiare e applaudire i loro più immediati inseguitori... e oltre prima di montare in macchina e lanciarci in… prova speciale verso la parte alta della Valgrisenche, cambiare versante e rimontare quello orografico destro in direzione del Rifugio Chalet de l’Epée.
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Lo raggiungiamo con timing pressoché perfetto per fissare con lo smartphone l’approdo di Franky, sempre più “copiato e incollato” da Macchi ed entrambi tallonati a pochi minuti dal volitivo Sangé Sherpa che pagherà sul lungo lo sforzo di questi primi cinquanta chilometri di gara. Ripartono tutti e tre nel giro di due o tre minuti in direzione di Col Fenêtre, Rhêmes-Notre-Dame e soprattutto della prima delle tre sole notti di gara dei pochi, pochissimi “alieni” che riusciranno nell’impresa di fare ritorno a Courmayeur entro la giornata di mercoledì.
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Per il secondo anno consecutivo, Collé chiuderà la sua prova vincente ritoccando il record (che già gli apparteneva) e portandolo a 66 ore, 39 minuti e 16 secondi, timbrando così il suo quarto successo dopo quelli del 2014, 2018 e 2021. Alle sue spalle (anzi, parecchio più indietro) il francese Romain e il canadese Galen Reynolds a completare il podio. Peccato solo che - per via del timing dell’evento - come già un anno fa l'ingegnere di Gressoney abbia raggiunto il traguardo alle quattro e mezza del mattino. Sarebbe forse il caso di anticipare di un paio d’ore il via.
Tra le donne invece, di questi tempi per vincere il Tor330 occorre essere… residenti del Cumbria - contea dell'inghilterra nordoccidentale - e di professione veterinari(e): requisiti in possesso (unitamente alla frequentazione delle montagne del Lake District) sia della vincitrice 2023 Emma "occhi di gatto" Stuart, sia di Sabrina Verjee, prima un anno fa ma a questo giro ("TOR", appounto) costretta all’abbandono.
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Noi intanto mettiamo la retro, nel senso che puntiamo di nuovo verso il capoluogo Valgrisenche, come fin dai primi chilometri accompagnati nel ruolo di navigatore dall’impagabile Stefano Mottini: valtellinese di nascita, valdostano per scelta, giudice internazionale di scialpinismo e molto altro ancora. Se la gioca con Collè, Gadin e Parasacco per popolarità e competenza a trecentosessanta gradi su tutto lo scibile valdistano e oltre!
Appostato all’ingresso della “sadica” rampa di acciottolato che porta dalla strada provinciale alla seconda base-vita, intercetto nuovamente Tatiana (“in the mood for TOR” come e forse più di poche ore fa a La Thuile), poi decido di concedermi un altro assaggio di “aid station”. Tra chi fa la fila per una cena ristoratrice, chi si toglie di dosso la fatica del giorno regalandosi una bella doccia e chi studia la strada (sì, magari!) che ha davanti, l’umore sembra ancora alto. Non durerà tanto, non potrà durare, ma tutti quelli che si aggirano qui con un pettorale addosso e il borsone giallo sulle spalle, sono già in qualche modo giganti.
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Loro e a maggior ragione gli interpreti della versione più estrema e alta (nel senso della quota) dell’evento: il Tor des Glaciers da 450 chilometri che per il secondo anno consecutivo premia “roi” Sébastien Raichon che demolisce il suo record 2023, “accettandolo” (nel senso dell’attrezzo) di quasi dieci ore e portandolo a 123 ore, 57 minuti e 18 secondi. Tra le donne giganteggia invece la minuta Florence Golay-Geymond (dalla Svizzera) che chiude la sua prova dopo 160 ore 50 minuti e 34 secondi: “énorme ", direbbero al di là del confine per lei e per Sébastien!
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Con un pensiero ai “giganti” (che si potranno concedere solo qualche microsonno o poco più) e relativo senso di colpa, noi facciamo rientro a Courmayeur per una confortevole notte. Abbiamo davanti una memorabile manciata di ore sul Monte Bianco, poi dovrò di malavoglia sganciarmi dal gruppo e rientrare alla base, mentre i Karpos-men si dedicheranno all’assistenza del loro top runner Daniel Jung nel Tor130 Tot Dret: tutto dritto (sì, magari!) da Gressoney a Courmayeur.
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Al suo debutto in questa prova, l’altoatesino di Silandro/Schlanders (Val Venosta) nei giorni precedenti al via aveva pensato bene di sbilanciarsi, fissando come obiettivo minimo vittoria e record! Beh, che dire, il titolo in questo caso non può che essere: “DJ suona tutti”! Missione compiuta in 21 ore, 11 minuti e quattro secondi, al termine di una gara tutt’altro che semplice da condurre in porto per Dani, sia dal punto di vista delle caratteristiche del tracciato, sia a livello di condizioni fisiche.
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Lunedì 11 settembre: un nuovo giorno sorge sul Monte Bianco. Dai milleduecento metri di quota Courmayeur ai quasi tremilacinquecento di Punta Helbronner in un quarto d’ora (forse meno), compreso lo scalo intermedio del Pavillon che divide in due tronconi il tragitto della Skyway. Lo sguardo corre tutto intorno e abbraccia con l’aumentare della quota un panorama sempre più ampio e maestoso. Prima sui sentieri che i concorrenti del Tor stanno disseminando di tracce, storie, fatica e passione. Poi sui giganti di roccia della Valle d’Aosta. Infine (siamo sbarcati dalla “gondola” e ci stiamo arrampicando sulla terrazza che sovrasta la stazione d’arrivo) su tutto il settore occidentale dell’arco alpino.
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Il set è quello ideale per le raffiche di selfies che turisti da ogni parte del globo scattano compulsivamente. Noi invece abbiamo la possibilità di fare un viaggio nel tempo (in entrambe le direzioni) con Marco Giardino, Vice Presidente del Comitato Glaciologico Italiano. La premessa non la fa lui: è rappresentata da quei sette gradi sopra lo zero che - qui e ora, agli sgoccioli (ecco!) dell'estate e a 3600 metri di quota - ci consentono di restare per più di un’ora all’aperto con una leggera giacca a vento (by Karpos, naturalmente), senza mai avvertire il freddo che infattinon è tale. Merito del nostro abbigliamento e… colpa del fenomeno del riscaldamento globale. Marco ne sa molto più di noi e - davanti allo scenario del Ghiacciaio del Gigante (una vera e propria password di questi due giorni) ci fornisce un quadro d’assieme quanto mai utile e necessario, anche e soprattutto a scopo divulgativo.
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Niente a che vedere con il sensazionalismo da audience dei media sul tema. Invece, riflessioni ponderate che spingono a documentarsi ulteriormente, per poi poter garantire - da operatori dell’informazione - una qualità superiore nel racconto di un fenomeno che - come ci conferma Marco sulla terrazza e poi al sottostante Rifugio Torino - abbiamo ancora la possibilità di provare a circoscrivere: nel lungo, naturalmente, e solo mettendo in atto e portando avanti con costanza pratiche virtuose che richiedono un intervento sull’economia mondiale nell’ordine dell’uno per cento.
Non sarà facile, rifletto, in un contesto globale segnato da un conflitto i cui riflessi vanno già ben oltre l’ambito locale. Però il messaggio di Marco (equilibrato e in qualche misura incoraggiante e militante) poggia su solide basi scientifiche e spinge a guardare avanti ma... senza limitarsi a questo, a stare a guardare. Qualcosa che possiamo fare - costerà sacrifici ad ogni livello - solo mettendo al centro il bene dei nostri figli e delle generazioni future. Come dire che reagire al cambiamento climatico in atto è la missione di vita che spetta agli adulti di oggi. Molto semplicemente, senza girarci troppo attorno.
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Infilo questi pensieri nello zainetto che uso tutti i giorni e che mi sono portato anche quassù: perché tutti i giorni li voglio e li devo ritrovare e riattualizzare. Se possibile diffondere. Mi serviranno anche per mettere nella giusta luce la sensazione provata nel luna park di Punta Helbronner: quella di trovarmi a trascorrere in compagnia di decine di miei consimili un paio d’ore abbondanti in un luogo che forse (da qui una sorta di disagio virtuoso) dovrebbero probabilmente raggiungere solo poche persone alla volta, con le loro forze, debitamente preparate ed equipaggiate e senza trattenersi per più di qualche decina di minuti. Certo, a quelle “condizioni” non sarei qui nemmeno io. Un sacrificio che farei volentieri. Potrei accontentarmi di essere laggiù, fin dove spazio lo sguardo: a correre sui sentieri, in mezzo ad altri giganti!
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