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L'ultima impresa di Michele Graglia

Millesettecento chilometri negli spazi sconfinati del Deserto del Gobi, La nostra intervista all'ultramaratoneta italiano

19 Nov 2019 - 11:09

Un’ottantina di chilometri al giorno, quasi due maratone quotidiane. Per ventitre giorni. Consecutivi. Questo è quello che Michele Graglia ha fatto – ogni singolo … “doppio giro d’orologio” tra il 20 settembre ed il 13 ottobre scorsi. La traversata del Deserto del Gobi in Mongolia: di corsa, da record, anzi da Guinness dei primati. Al suo ritorno in Italia, moderno (anzi contemporaneo) Marco Polo, abbiamo intervistato Michele per il Magazine di Studio Aperto, grazie ai buoni uffici dell’amico Dino Bonelli che lo ha seguito nell’impresa con un piccolo ma super-efficiente team di supporto.

La pur preziosa manciata di minuti televisivi a nostra disposizione non ci sembrava però sufficiente a restituire i contorni (tantomeno il senso) dell’impresa. Abbiamo quindi pensato di proporvi qui l’intervista integrale, corredata da alcune delle immagini più significative della traversata. Impiegherete pochi minuti (nove, il tempo effettivo dell’intervista stessa) per ripercorrere idealmente i millesettecento chilometri “mongoli”, che hanno fatto seguito ai novecento abbondanti della traversata del Deserto cileno di Atacama del 2018 e che diventano ora premessa per gli oltre seimila della prossima ultrafrontiera di Graglia: la traversata est-ovest del Sahara, in programma nel 2020. Intanto però, concentriamoci su questi straordinari millesettecentotre chilometri, concentrati nei nove minuti in questione. D’accordo, non ci staranno mai … Per non lasciare nulla di intentato possiamo però … applicare un “coefficiente moltiplicativo” che chiameremo - riga dopo riga - fantasia, fascinazione, sogno. Non sarà difficile e ci avvicinerà al traguardo. Andremo quantomeno un po’ più in là. Che è poi quanto basta. A meno che non siate anche voi ultramaratoneti. Sulla strada o anche solo nella testa, nel cuore. Ecco appunto, passione e ragione. Partiamo da qui. 

Michele Graglia, a poco più di un mese dalla fine della tua avventura nel Deserto del Gobi, questa avventura è calata nel profondo o staziona ancora dalle parti della coscienza? E’ più vicina alla testa o al cuore?

Chiaramente è vicina al cuore. Diciamo che devo ancora “atterrare”. Non so se ha senso. Devo ancora metabolizzare e capire quello che è successo: un’avventura davvero estrema.

Come si è svolta? Tu hai corso per ventitre giorni: qual è la giornata-tipo in un’avventura di questo genere?

Ho cercato di dividere la giornata in tre stage, partendo molto preso la mattina, solitamente prima dell’alba, facendo solitamente dai trenta-trentacinque ai quaranta chilometri alla volta. Poi una piccola pausa, un piccolo pasto, magari un riposino. Poi un’altra tappa di (solitamente) venti-venticinque o trenta chilometri, dipende. Di nuovo un’altra piccola pausa, pasto e piccola tappa serale di quindici-venti, venticinque chilometri. Per una media che solitamente si attestava tra i settantacinque e gli ottantacinque chilometri al giorno.

Trattandosi di una traversata di un deserto, che tipo di incontri hai fatto?

Mah, è stato meraviglioso ritrovarsi in quella vastità e nel mezzo del nulla e poi vedere questi gruppi di cavalli selvaggi che correvano, oppure cammelli oppure pecore, capre, a volte incontri di lupi, volpi aquile, quindi una natura davvero meravigliosa. Incontri umani davvero pochissimi, soprattutto nella seconda parte. Nella prima abbiamo attraversato due o tre centri abitati dove c’era magari il passante che a volte con la sua moto nel deserto spostava le sue greggi, perché comunque si tratta di popolazioni nomadi. Nella seconda parte eravamo proprio nel selvaggio: quindi per quasi mille chilometri, a parte il nostro team di supporto, non c’era anima viva.

Che tipo di terreno hai incontrato? Sempre lo stesso o cambiava?

No, è stato bellissimo perché solitamente quando si pensa al deserto si immagina la sabbia, si immaginano le dune. Invece il deserto è quanto mai vario. Ogni tot di chilometri si trovava un paesaggio diverso, un terreno diverso, quindi davvero molto “challenging”, molto difficile. Da sabbia molto profonda a ghiaione, a terra battuta. Si sono attraversate chiaramente dune. A volte alti passi di montagna, siamo arrivati oltre i 2500-2600 metri di quota e poi queste immense praterie … A volte sembrava di essere quasi … quasi persi nell’oceano. Ci si trovava in questo ambiente così aperto, così vasto che si vedeva la linea dell’orizzonte , a trecentosessanta gradi e sembrava di essere nell’oceano, quasi …

C’è stato un ricordo particolare, un momento che ti svegli la notte e ti viene in mente quello?

Uno potrebbe pensare i momenti difficili, attraversare i momenti difficili ma c’è stato un momento particolare, un’alba particolare che ricordo benissimo duecento chilometri circa dopo l’ultimo paese, nel centro del Gobi, che poi è stato l’ultimo centro abitato che abbiamo attraversato prima di infilarci negli ultimi - chiamiamoli così - mille chilometri di ”selvaggio” e c’è stata quest’alba meravigliosa su queste dune dorate con un’atmosfera … magica davvero: non me la scorderò mai!

Tu eri seguito da un team di supporto: che ruolo ha avuto nella tua impresa?

Un ruolo fondamentale. In una traversata di questo genere, fatta in questo stile, vale a dire nel più veloce tempo possibile, il team ha lo stesso valore del corridore. Quindi è stata un’impresa corale. Senza il loro supporto non sarei mai riuscito a portarla a termine, senza dubbio.

Che differenze hai trovato rispetto alla tua traversata del 2018 nel deserto di Atacama in Cile, nella modalità dello svolgimento, al di là del chilometraggio?

Innanzitutto la grande diversità è stata a livello di terreno. L’Atacama è un deserto molto più roccioso, quindi correre era – diciamo - molto più facile per quanto riguarda l’appoggio e la spinta. Infatti là sono riuscito a correre molti più chilometri al giorno. D’altra parte in Cile c’era l’altitudine: abbiamo superato passi oltre i 3500-3600 metri di quota e questo ha avuto un certo impatto a livello fisico. Il Gobi molto più sabbioso e anche molto … molto … molto più ventoso. Su ventitre giorni di traversata ne abbiamo avuti ventidue di vento contrario, al punto che a volte si faceva fatica anche solo a camminare, anzi a stare i  piedi. L’ultima giornata l’abbiamo vissuta quasi in chiave di … epica greca, quando anche il … dio del vento ci ha accompagnato e ci ha dato il suo “benestare” per portare a termine l’impresa.

Per l’anno prossimo hai già in progetto un’impresa, ancora più enorme di questa …

Si, diciamo che il grande progetto che sto portando avanti è questo di attraversare i deserti più grandi del pianeta in quattro anni consecutivi: dopo Atacama e Gobi nel 2020 tocca al Sahara: quindi una traversata in orizzontale di tutto il Nordafrica, da est verso ovest: quindi dal Mar Rosso fino alla costa dell’Oceano Atlantico.

Per quale chilometraggio totale?

Seimilacinquecento … Quindi parliamo di un chilometraggio molto più ampio di quest’anno dove abbiamo corso “solo” 1703 chilometri. Chiaramente è un salto in avanti molto grande ma credo che sia questo a stimolare questa mia sete d’avventura, ad affascinarmi, a spingermi a fare queste imprese.

Ecco ma, mentalmente, cosa vuol dire passare da 1700 a 6500 chilometri, cioè dove trovi il coraggio di pensare ad un’impresa di questo genere e poi quello di intraprenderla?

Credo che alla base di tutto ci sia una grande sete di curiosità e di avventura. Quindi scoprire per me stesso quello che è possibile … Ma poi non solo per me stesso ma proprio come essere umano: qual è il nostro limite, perché molto spesso  i limiti sono quelli che ci autoimponiamo. Quello che ho scoperto in questi anni, praticando questa meravigliosa disciplina delle ultramaratone è che … non esiste limite: è tutto nella nostra testa. Quindi se ci si pone un obiettivo - chiaramente programmandolo, organizzandolo nel modo giusto - si possono compiere imprese che all’inizio potevano sembrare impossibili.

In questa evoluzione del tuo modo di correre e di vivere, che ruolo hanno le ultramaratone, quelle che corri e che vinci in America?

Mah, è un approccio molto diverso perché la gara è … la gara e, parlando di chilometraggio, anche solo una 200 chilometri è quasi uno sprint in confronto a millesettecento o ai seimila chilometri. L’approccio completamente diverso. Quello che aiuta sicuramente sono la predisposizione e l’allenamento mentale a convivere con il dolore e ad accettarlo. C’è un detto buddista molto famoso che recita: il dolore è inevitabile ma la sofferenza è facoltativa. Una volta accettato, il dolore diventa parte del viaggio e quindi … idealmente si potrebbe andare avanti all’infinito.

Tu fai delle cose che alla maggior parte delle persone sembrano sovraumane … ed in effetti lo sono. Perché sono cose alle quali la gente normale non pensa e tantomeno intraprende. Tu adesso hai terminato questa impresa, sei impegnato nelle pubbliche relazioni, nel cercare di raccontare quello che hai fatto. Ma poi nei prossimi mesi tu, cioè un ultramaratoneta come te, come si riposa, cosa si può concedere?

Beh in questo momento, chiaramente, è necessario un momento di stacco: non solo fisico ma mentale, psicologico. C’è bisogno di ricaricare le batterie, per poi ripartire in modo graduale e progressivamente crescere per arrivare fisicamente ma anche mentalmente pronti ad affrontare una sfida enorme …

Quindi tra la traversata del Gobi e quella del Sahara tu nei prossimi mesi come ti gestirai dal punto di vista sportivo?

In questo momento sono a riposo totale, infatti sto anche mettendo su un po’ di peso perché … è invitabile, non correndo molto e mangiando … Però credo che ci sia bisogno anche di questo: di poter godere delle piccole cose, di poter rilasciare anche un attimo la tensione, perché comunque quando si parte con una preparazione, c’è una certa attenzione anche a livello nutrizionale, un certo livello di stress giornaliero per gestire i grandi carichi di allenamento e quindi credo che sia necessario capire questa periodizzazione: che prevede un momento di stacco, nel quale rilassarsi, vivere in modo normale e poi piano piano ripartire e crescere sempre di più.

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