La nostra prima esperienza nella disciplina più cool dell’inverno, sulle piste del comprensorio Weissmatten.
di Stefano Gatti© Stefano Jeantet
Il muro finale della “Leo David” è lì davanti a me. So che è lì, l’ho visto poche ore fa, al mio arrivo a Gressoney: un… crepaccio bianco in mezzo al verde scuro della foresta. Rispettosamente evito di guardarlo in faccia (ne sarei sconfortato? E fino a che punto?) ma non rinuncio a prenderlo di petto, a provare a ferirne la superficie a colpi di bastoncini ma soprattutto ”with a little help from my friends”, le dodici punte acuminate dei microramponi fissati alle scarpe da trail. Diversamente… non si sale e noi davanti (anzi, sopra la testa) abbiamo ottocento metri di pista, da percorrere appunto nel senso inverso rispetto allo scopo per il quale è stata creata. Eppure non vedo sguardi di compatimento o disapprovazione da parte degli ormai pochi sciatori ancora in giro. Sono da poco passate le sei di sera ed il meglio deve ancora venire.
Lontani dalle posizioni che contano - per così dire nella zona d’ombra di una gara… illuminata dai riflettori - abbiamo pensato di provare la mano (e i piedi, i muscoli, il fiato) nello SkySnow, nuova frontiera… invernale della Federazione Italiana di Skyrunning, appoggiata dalle aziende, da diverse località dell’arco alpino (ma anche dell’Appennino) aperte al nuovo e per questo toccate dai due circuiti “dedicati”: quello federale appunto e quello NORTEC. E poi da alcuni personaggi carismatici della corsa in montagna, in natura, sui sentieri ed ora anche sulle piste da sci. Come Franco Collé che ci ha invitato ed ospitato a Gressoney per la prima edizione della “sua” Weissrunner.
© Stefano Jeantet
Con la solita faccia tosta, nella gabbia di partenza alla base delle piste del comprensorio Monte Rosa Weissmaten mi metto subito dietro ai top runners che al via scattano come se - oltre ai micro-ramponi - sotto le suole avessero i microrazzi, i postbruciatori e poi ancora le molle. In prossimità dell’approdo dello schuss finale (iniziale, per noi…) della pista intitolata a Leonardo David mi superano almeno in venti: a destra ed a sinistra, sbuffando come assatanati. Mai quanto me però! Il primo giro “di chiglia”, l’anello basso studiato per ovviare all’impossibilità di partire come originariamente previsto dal paese, non produce grossi danni al fisico e al morale. Tantomeno - lo scoprirò con sollievo a cose fatte - alle punte dei ramponcini, pur nel passaggio su alcuni tratti liberi da neve e ghiaccio. Cerco inizialmente di rispettare gli attrezzi, di evitare terreno duro ed asfalto spostandomi sul più morbido sottobosco a bordo strada ma perdo troppo tempo e quindi mi libero dei freni inibitori e “sferraglio” anch’io a più non posso.
Ridisceso a tutta il pendio, giro di boa (anzi tornante secco in contropendenza) in zona partenza ed eccolo, l’incubo: il muro finale (iniziale, per noi… vabbeh, ci siamo capiti) della “David”. I NORTEC affondano i loro denti nel ghiaccio e grattano a più non posso, ma tengono a meraviglia anche nei tratti più ripidi ed in qualche passo laterale. Da un momento all’altro mi rendo conto di sentire quell’inconfondibile sapore di… sangue in bocca che mi riporta con la memoria alle sky più dure ed impegnative. Spingo a braccia pari sui bastoncini (siano benedetti!) e - appena mi rendo conto della sua esistenza - mi butto sul bordo opportunamente scalinato della pista. Di salire a zig zag non se ne parla proprio: non sarebbe serio, non sarebbe una gara!
© Stefano Jeantet
Va già meglio ma insomma, ho bell’e scoperto che risalire una pista da sci è roba al confine dell’esperienza mistica. Per quelli come me, ça va sans dire. Finita la pista “praticabile” e preparata, non è mica finita la fatica. Inizia il tratto alto della stessa: quello ormai dismesso (per quest’anno), in attesa di inverni migliori e che nel frattempo ci riserva sezioni al più ghiacciate ma discontinue (emergono il terreno erboso e le pietre) ed altre con più neve ma cedevole, dove ogni passo costa ancora più fatica, perché si tende ad affondare. Mentre affrontiamo l’ultima rampa, dividiamo la pista con i concorrenti che - appena oltre la fettuccia che divide ambizioni e possibilità - sono già passati al giro di boa là in alto e naturalmente finisco per l’invidiarli un po’. Meglio restare concentrati e scollinare dignitosamente, dopo un bicchiere di tè bollente.
© Stefano Jeantet
Il freddo della sera si fa sentire: partiti con le luci del giorno appena digradanti, abbiamo tutti ormai da un bel po’ le frontali accese ad indicare la retta via (retta si fa per dire). La discesa è la mia parte preferita e non perché è - apparentemente - quella più facile. Tutt’altro! La pista è ben fresata, veloce, divertentissima. Peccato non avere punti di riferimento diretti e vicini: siamo ormai tutti sgranati, le posizioni largamente acquisite. Nessuno in vista davanti e dietro di me, qui e ora, nella solita terra di mezzo un po’ oltre metà classifica. Resto “focused” per i tratti più ripidi, dove si prende ulteriormente velocità: ne ricordo “a pelle” (non d’orso, per fortuna) almeno un paio. Quelli che pensi: “Non mi fermo più, neanche pregando, al massimo buttandomi per terra…”
© Stefano Jeantet
Siamo ormai giù, le luci e le voci della zona d’arrivo a guidarci "a baita" nell’ultimo chilometro. Metto nel mirino la ragazza con la quale ci siamo sfidati ad inizio gara ma guadagno sì e no trenta metri negli ultimi cinquecento. Traguardo, freddo, senso di sollievo, trancetti di pizza a volontà e vin brulè… anche! Skyrunning sulla neve per quanto mi riguarda sdoganato, esperienza positiva e da ripetere alla prima occasione utile. Mi restano da provare la versione più corribile, meno ripida in salita, e poi magari quella only-up: la vertical. Dopo una sbuffata come questa Weissrunner però, ci posso pensare senza patemi, a cuor leggero!