Come spremere il meglio da una giornata nera sui sentieri di una prova più impegnativa del previsto
di Stefano Gatti© Trail dei Corni
Un piede a monte, uno a valle: fermo così, pochi metri dopo l’inizio della rampa che dal Rifugio SEV all'Alpe di Pianezzo si arrampica fino alla Forcella dei Corni, GPM della quinta edizione dei Trail dei Corni di Valbrona. Indeciso sul da farsi: abbandonare e scendere a valle, al culmine di una giornata nera, oppure come si dice in questi casi e non solo “portarla a casa” tenendo duro. Pochi metri più in basso, il volontario che mi ha indicato poco fa il bivio mi guarda da sotto in su: forse ha intuito il mio dilemma. Nel caso, te lo confermo: hai pensato male perché il piede che si muove per primo è quello a valle, dando il cambio all’altro… verso l’alto. E così via, un passo alla volta: si va avanti!
© Francesco Bergamaschi
E pensare che la giornata nera di cui sopra era iniziata in modo molto più luminoso e sereno: all’insegna del cielo terso sopra Valbrona, nel verde del Triangolo Lariano (e montuoso!) che divide il ramo comasco da quello lecchese del Lario e culmina nella panoramica cresta del Monte San Primo ma ha nel gruppo “dolomitico” dei Corni di Canzo (un po'... sbilanciato verso Lecco) il suo vero simbolo. La prova che abbiamo deciso di affrontare oggi su... irrinunciabile invito degli amici della Sportiva Valbronese ha per “pezzo forte” (molto forte, pure troppo!) proprio i Corni, che non scaleremo fino in vetta ma intorno ai quali ricameremo lungamente la nostra fatica sui sentieri. Il contatto con gli organizzatori risale a quasi un intero anno prima, in occasione del Trofeo Dario e Willy che si corre su distanza, dislivello e terreno molto simile ma sul versante di Valmadrera dei Corni: quello che affaccia direttamente su Lecco. Due prove in un certo senso gemelle ma… diverse. Uno dei nodi della mia giornata di luna nera è proprio questo. Però bisogna arrivarci. Fosse stato così semplice, sarei qui a raccontare ben altra performance: sempre limitatamente alle mie possibilità, si capisce!
© Trail dei Corni
Breve riscaldamento e foto pre-gara di rito con il compagno di squadra (della Sportiva Lanzada) Vittorio Pedrazzoli che chiuderà brillante trentesimo su 186 classificati. Poi arriva il momento di entrare come tanti torelli scalpitanti torelli nella gabbia di partenza. Davanti a noi ventisei chilometri (25 e mezzo al mio personale GPS) e 1900 metri di dislivello positivo. L’itinerario di gara prevede due anelli: il primo si sviluppa su e giù dal Monte Megna che sbarra a occidente la conca nella quale sorge l’abitato di Valbrona e si chiude con un ritorno a fondovalle (dieci chilometri già in saccoccia) all’altezza della frazione di Visino, tra Asso e la stessa Valbrona. Attraversata la strada provinciale ecco che attacca il secondo, più lungo e soprattutto più impegnativo anello che poi alla fine (me ne accorgerò a mie spese a cose fatte) ne incorpora un terzo: un loop a tratti “sky” che si apre e si chiude con il passaggio nei pressi del Rifugio SEV sul versante nord dei Corni di Canzo, su un balcone naturale (l'Alpe di Pianezzo) con splendida vista sul promontorio di Bellagio, l’Alto Lario e le lontane Alpi di confine tra Italia e Svizzera.
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I primi chilometri di gara scorrono via (ok, scorrono forse è esagerato) senza troppi scossoni. Tratti duri non ne mancano ma c’è anche modo di rifiatare. Poi si inverte seccamente la rotta a poche decine di metri dalla vetta del Megna. Faccio non so come mente locale, mi ricordo che la discesa una volta era il mio punto di forza (come sopra: limitatamente ecc ecc) e provo a lanciarmi giù mollando tutto quello che c’è da mollare. Il virtuosismo mi riesce molto meglio che non lungo tutti gli ultimi due anni e approdo a fondovalle in pareggio di bilancio in quanto a sorpassi, ma solo perché mi sono fermato ad accertarmi delle condizioni di un collega che incappa in una storta di quelle “giuste”.
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Poche decine di metri in piano e ci infiliamo già nel bosco del versante orientale della valle. Le buone sensazioni le abbandono però malauguratamente e (ancora per poco) inconsapevolmente lì ai bordi del sentiero e salgo senza… Gambe improvvisamente molli, dolori alle spalle, fiato corto e fiacchezza generale. Incrocio il Falco (di lecco) Gabriele Alippi che scende contromano, scortando un compagno di squadra vistosamente zoppicante. Immagino per una scavigliata ma forse qualcosa di peggio. Mi supera intanto uno dei colleghi che avevo raggiunto e superato nella precedente planata: “Tanto poi mi riprendi alla prossima discesa”. Eh, mi sa di no! Ad ogni passo diventa più dura: che il sentiero impenni o che davanti ci sia un (peraltro raro) falsopiano, è come se tra gli ingranaggi non scorresse più una goccia d’olio. Inizia a ronzarmi per la testa l'ipotesi-ritiro: la scaccio pensando che è fin troppo presto per mollare e che può sempre trattarsi di una crisi passeggera. Proviamo a tenere duro e vediamo se mi lascia veloce come è arrivata.
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Macché, i colleghi passano (davanti a me) molto più rapidamente e molto più numerosi dei chilometri. Calcolo di trovarmi ormai a tre quarti della classifica: centocinquantesimo o giù di lì. La luna nera “splende” sempre di più. Inizio a chiedere acqua ad ogni punto di controllo. Non so come (anzi sì, sto per arrivarci) ma… non ne ho portata. Allo stesso modo (e forse di più) rimpiango di non avere con me i bastoncini. Soprattutto quanto penso che si trovano laggiù, nel baule della macchina: ho pensato che non mi sarebbero serviti e mi sarebbero stati d’intralcio, anche piegandoli. A dipingere i tocchi finali al quadro della “tempesta perfetta” sono però (eccoci, "finalmente") il nervosismo e la mancanza di serenità che derivano dalla necessità di fare in fretta (manco fossi Del Pero), perché alle quattro in punto devo essere in redazione a Cologno Monzese per il GP d’Argentina del Motomondiale.
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Sto insomma arrancando sui sentieri con tutt’altro in mente: errore imperdonabile! Tensione a fior di pelle, scarsa concentrazione su quello che sto facendo e di conseguenza poche o zero tracce dell’indispensabile divertimento. In più (per tornare a quanto anticipato sopra), mi rendo conto che nelle due occasioni nelle quali avevo partecipato al Trofeo Dario e Willy (come detto equivalente per impegno, sviluppo e dislivello) mi ero premurato di avere l’intera giornata libera. Sottovalutazione della missione, insomma: il quadro è completo. Tempesta perfetta, falle evidenti nello scafo e naufragio in vista.
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L’ipotesi-ritiro (in sette anni e quasi duecento gare in montagna messa malvolentieri in pratica solo una volta) mi passa più volte davanti agli occhi ma ormai, procedendo al rallentatore o quasi, raggiungo con una quarantina di minuti di anticipo il cancello orario (tre ore dal via) dei Forcella dei Corni, un paio di chilometri oltre la boa di metà distanza. A destra ora, per un bel tratto di discesa nella pineta (primo breve tratto in comune con il Trofeo Dario e Willy) prima di voltare a sinistra per tornare a salire. Appoggiamo sul versante di Canzo: staccare il pettorale qui presenterebbe evidenti controindicazioni nel ritorno al campo-base di Valbrona. Il bosco si fa più rado e le pendenze aumentano nella rampa che sale verso la parete sud del Corno Occidentale. Mi fermo un attimo a raccogliere i pensieri e accetto volentieri l’offerta di qualche sorsata d’acqua dal flask del collega Mauro Cavanini che - dopo averlo fatto sul posto - torno a ringraziare in queste righe. Dieci secondi dopo aver bevuto però, giusto il tempo di girarmi dall’altra parte e… finisco per rimettere, come non mi capitava più da almeno trent’anni. Tiro il fiato e mi ricompongo. Se non altro mi sento come liberato e un minimo riconfortato. Smetto quando voglio: mai! Riprendo a salire, puntando al Rifugio SEV, dove poi deciderò il da farsi.
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Risalgo il breve canalino tra le rocce e sbuco in Costabella, sul sentiero perlopiù pianeggiante che conduce alle baite di Quarantin e poi al rifugio stesso. Lì si apre e si chiude il “terzo anello”: il punto giusto quindi per (eventualmente) alzare bandiera bianca, staccare il pettorale e avviarmi direttamente verso Valbrona lungo il tratto finale della prova (che corre poco a valle rispetto a dove mi trovo) ma fuori gara, avendo in quel caso tagliato il terzo loop.
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Arrivo all’attacco della breve rampa che si stacca verso destra, poche decine di metri prima di raggiungere il rifugio. Mi fermo come detto all’inizio un piede verso monte e uno verso valle e poi, come sapete già, decido di “portarla a casa”. La torcida di ragazzi che ci fanno il tifo lì sopra sta ormai sbaraccando ma - me lo ricordo bene e ringrazio anche lui qui dopo averlo fatto lì - l’ultimo della fila si gira e mi grida da lontano: “Non mollare, uomo!”
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L’effetto è quello giusto e motivazionale: mi aiuta a dirigere passi un po’ più sicuri verso la vicina Forcella quota milletrecento (GPM della gara) che divide il Corno Centrale da quello Occidentale. Svalicata la quale si torna a scendere nel versante di Valmadrera, dentro l’ambiente più selvaggio dell’intera giornata. La discesona - pronunciata ma ben ritmata dai tornanti - mi permette di distendere passi e pensieri fino al ristoro del Fontanino. Di nome e di fatto: butto già due o tre bicchieri di acqua fresca dentro una tazzina metallica fissata in loco tramite catenella (tutto il mondo è paese). Nessuna controindicazione improvvisa, stavolta! Solo che la nuova inversione di rotta introduce la quarta e ultima salita di giornata: quella che culmina nella sella tra il Corno Centrale da quello Orientale. Così, giusto per completare la collezione!
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Lascio per strada qualche altra posizione e inizio a pensare di essere più prima che poi raggiunto dalle “scope” che chiudono la gara. Poi imbocco con animo finalmente più leggero e "pianeggiante" il traverso di percorso a tratti dolomitico alla base delle pareti di roccia (qui sopra la vincitrice Alice Gaggi impegnata molto ma molto più plasticamente di me in questo settore), guidato dall’evidente tetto verde dell'onnipresente (tra queste righe) Rifugio SEV Pianezzo, secondo breve tratto in comune con il Trofeo Dario e Willy. Raggiunto il pratone alla base del Rifugio, approfitto con giudizio del ristoro. Bene, non sono colato a picco, ora devo “solo” calare a valle.
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Siamo al ventunesimo chilometro. Da qui al traguardo è tutta discesa: varia e divertente, se fossi in vena. Punto invece ad abbassarmi senza danni: corricchiando appena posso, camminando quando devo. Chiedo a chiunque incontri quanto manca: “Vai tranquillo, saranno poco più di tre chilometri”. Ah bene, riprendo a scendere e qualche minuto dopo: “Dai, ne mancano solo cinque”. Ma come cinque??? Oh, Gesù!
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Fine pena: mai! Nell’ultimo tratto di sentiero nel bosco tengo a bada un incombente attacco di crampi. “No, eh? Buoni lì!”. Poi è solo più asfalto, le vie del paese. Mi rimetto a correre negli ultimi cinquecento metri di gara, per salvare le apparenze! Sapendo che avrei comunque avuto fretta di rientrare, avevo preventivamente chiesto agli organizzatori di poter pranzare subito ma… sono moooolto più in ritardo del previsto: chiedo solo un bicchiere d’acqua. Mi dicono che posso consolarmi: anche il toprunner Simukeka ha avuto una giornata di crisi! Solo che lui quando gli va male arriva trentaquattresimo, io da quelle parti della classifica non arrivo nemmeno nei miei sogni più belli! Lo incrocio nel prato del centro sportivo di Valbrona, mentre butto giù una sorsata d'acqua fresca dopo l'altra, diretto al parcheggio: Jean-Baptiste almeno adesso è in relax e sembra aver metabolizzato tutto. Io invece cinque minuti dopo aver bloccato la fotocellula della linea d’arrivo sono già al volante, cercando di galleggiare lungo la Brianza in testa all’onda meccanica del rientro dalle gite domenicali verso Milano.
Mi cambio al volo nel garage di Mediaset e salgo in redazione tre soli minuti prima del via della gara della Moto3. Resterò inchiodato lì fino alle ventitré e - una volta a casa - non prenderò sonno prima delle tre del lunedì. A conti fatti una lunga giornata di ventidue ore filate di "veglia" attiva, iniziata con il suono dell'allarme dello smartphone alle cinque di domenica mattina. Una specie di “ultra” della quale avrei fatto volentieri a meno.
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Cosa resta del giorno, della notte e di tutto il resto? Beh, una dura lezione della quale farò tesoro e la voglia di presentarmi di nuovo l’anno prossimo al via del Trail dei Corni, perché una gara così merita proprio e per dirla tutta me la merito anch'io. Mettendoci però questa volta meno tempo, il necessario rispetto per la portata dell'impegno e di conseguenza concentrazione esclusiva. Altrimenti domenica 2 aprile avrei solo sprecato cinque ore e venti di tempo, che voglio invece rielaborare e contenere tra dodici mesi in… diciamo poco più di quattro, ben bilanciate tra fatica sportiva e divertimento allo stato puro!
© Stefano Gatti