Dopo essere stata esaltata per la qualità del suo gioco, la nazionale ha saputo raggiungere la finale con mezzi che sembravano appartenere al passato del nostro calcio
Meglio iniziare con una premessa: l'Italia ha utilizzato mezzi non proprio conformi all'idea di calcio che le ha dato finora Mancini non per scelta strategica ma perché la Spagna ha iniziato a ruminare il suo calcio da subito ed era oggettivamente difficile strapparle l'iniziativa. Detto questo, non c'è dubbio che la nazionale di Luis Enrique meritasse di più e anche chi scende in strada a colpi di clacson e di "popopopopopopo" non può non ammetterlo. Visto che però nel calcio, come in tutti gli sport, si punta a vincere, non è il caso di stare troppo a pensare al modo.
I dubbi, durante l'europeo, erano legati all'eterno dilemma se questa Italia sarebbe stata in grado di continuare la sua marcia anche di fronte ad avversarie di alto livello. La risposta è arrivata con il raggiungimento della finale, e chiunque potesse pensare di arrivare a Wembley cavalcando la qualità di gioco vista nelle prime tre partite o, a sprazzi, con Austria e Belgio, ha confuso questa nazionale con il Brasile del '70. Era prevedibile che ci si sarebbe trovati di fronte, prima o poi, delle squadre chiuse o con una grande qualità offensiva o con un'organizzazione straordinaria. Nel calcio moderno è impossibile pensare di vedere una partita in cui due squadre, con la medesima idea di calcio, si dividano in parti uguali l'iniziativa.
La Spagna è più avanti di noi (per background, abitudine e qualità) nella ricerca di un certo tipo di gioco e la semifinale lo ha dimostrato. Certo, magari ci si sarebbe aspettati qualche iniziativa di più da parte azzurra ma era francamente complesso uscire dal pressing e contrare con facilità gli scambi stretti e precisi degli avversari. Luis Enrique ha piazzato il falso nueve (Dani Olmo) e ha messo in piedi un complesso capace di far girare la palla a uno-due tocchi per superare l'aggressività azzurra. Dall'altra parte le iniziative dell'Italia venivano contrate da un pressing indirizzato sull'uomo, con le tre punte orientate sui tre difensori che solitamente danno il via all'azione azzurra e i tre centrocampisti pronti ad andare a prendere i colleghi di metà campo italiani anche in zone altissime del terreno di gioco. L'unica possibilità era azionare da subito Emerson Palmieri, l'unico che avesse campo davanti a sé visti i tanti metri che doveva percorrere Azpilicueta per andarlo a prendere. Una giocata, questa, vista troppe poche volte per avere successo.
Il piano b, per l'Italia, era quello di cercare la profondità ogni volta che le capitava il pallone tra i piedi e, a essere onesti, anche in questo modo, che non è propriamente nelle sue corde, ha saputo costruire occasioni importanti e, soprattutto, è passata sorprendentemente in vantaggio con il gol di Chiesa. Insomma, la partita con la Spagna è stato il vero e definitivo crash test per rendersi conto che questa squadra può stare di diritto con i grandi. Non è solo il fatto di vincere soffrendo è, soprattutto, la capacità di farlo quando si è chiamati ad agire su terreni sconosciuti e usando armi non congeniali. Per una sera, insomma, l'Italia ha ritrovato i files del passato e ha vinto. E questa è sempre l'unica cosa che conta.