Da Moratti a Thohir fino a Suning: un successo rincorso nel solco del dna nerazzurro
Undici anni dopo, campioni d’Italia. Nella fretta di rincorrere il successo, sembra un’eternità. Ma per un interista no, non può essere, un interista sa di dover aspettare: sta scritto nel dna, nella storia del club e in quei ritmi… decennali che sono la norma. Non scritta: fa parte del destino, dunque della vocazione. I primi scudetti, ogni decennio dal 1909. Il dopoguerra col ritorno tricolore a metà Anni Cinquanta, poi l’irripetibile Grande Inter di Herrera e il sussulto che ebbe nel ’71. Nove anni dopo, Bersellini-1980, altri nove anni ed ecco il record del Trap-1989. La lunga attesa che si allungò quasi ventennale fino a Calciopoli 2006 e la cinquina firmata Mancini e Mourinho. Il Mito del Triplete 2010.
Undici anni dopo, ecco Antonio Conte. Niente di anomalo, dunque, sistemando i conti dell’attesa: l’interista sa soffrire, disperarsi e anche gioire, sì. Ma poco. Vive di entusiasmi frenati, leggeri, critico anche nei momenti migliori, quasi una toccata e fuga per riprendere il cammino, senza enfasi. Quella primavera del 2010 ne è l’emblema: la notte dopo Madrid e il 2-0 sul Bayern era già l’addio a Mourinho, qualche proclama di fuga, la sensazione (poi certezza) che il ciclo - fantastico - di cinque stagioni fosse al capolinea. La festa di una notte.
Da allora a oggi si è consumato un tempo solo juventino (o quasi), monologo senza precedenti, e un percorso accidentato per le strade nerazzurre: l’addio lento di Massimo Moratti, quel regno irrisolto di Erick Thohir, la famiglia Zhang che ha avviato un progetto chiaro con un budget senza limiti, e che oggi è una rincorsa a sistemare i bilanci. Preoccupante quanto basta, per capire - appunto - come attorno al trionfo siano minimi - come sempre - i margini per fare una lunga festa.
Godersi uno scudetto, oggi, è averlo vissuto soffrendo quasi sempre, ogni partita: la dannazione interista anche con 11 punti di vantaggio a 5 giornate dalla fine. La liberazione dopo ogni gara vinta, temendo la successiva e azzerando la gioia del momento. Lasciandosi alle spalle Benitez, Leonardo, Gasperini, Simoni, Vecchi, Stramaccioni, Mazzarri, Mancini, De Boer, Spalletti, tutti gli uomini che hanno preceduto Conte. Un’Intercontinentale (Rafa Benitez), una Coppa Italia e un quasi-scudetto (Leonardo) nel 2011. Poi il silenzio. Mezze illusioni, svanite con ossessiva e micidiale puntualità invernale.
Nemmeno il Mancini-bis ha prodotto il miracolo di riportare in alto un’Inter sbagliata nella dirigenza, incapace di riprendere subito quota dopo l’addio di Moratti. E ci si era quasi abbandonati all’idea delle retrovie, a fare da comparse chissà fino a quando all’ombra del regno juventino, fino a quel segno che porta a Milano la famiglia Zhang, il direttore Marotta e un tecnico poco citato, ma fondamentale nel ridare una identità, un’anima alla squadra: Luciano Spalletti.
Da Spalletti si è ripartiti, e gli si deve qualcosa nel giorno dello scudetto. I due campionati chiusi col ritorno in Champions League sono la base sopra la quale Marotta ha imposto la chiamata per un top-manager come Antonio Conte. Un mondo-Juve vestito di nerazzurro per diventare -presto- un tutt’uno con il mondo-Inter. Una scelta decisa, condivisa poi per separarsi da Mauro Icardi, capitano, super-cannoniere e calciatore simbolo dell’Inter del dopo-Moratti, divenuto purtroppo un campione scomodo e ingestibile, per affidarsi alla scelta imprescindibile di Conte: Romelu Lukaku. La doppia svolta nel cuore del gruppo-Inter.
La staffetta tra due campioni, pensando che un giorno di settembre 2016 era arrivato trionfalmente… Gabigol, incomprensibile scelta del Pallone interista. Anche questo è un modo per capire come dieci anni di attesa siano passati attraverso decisioni inadatte a ogni ipotesi di successo. Ma così è stato, nella confusa gestione di quegli anni.
E adesso prepariamoci a capire quel che sarà. La squadra è tosta, l’allenatore è Conte, la stoffa c’è ed è pregiata. Per vincere. Poi sapremo se accadrà fra dodici mesi oppure alle soglie degli Anni Trenta. Gli interisti sono preparati e, come dire, vaccinati. E comunque oggi sono felici. Tanto.