Le basi dello scudetto firmato Simone Inzaghi
di Bruno Longhi© Getty Images
Ci sono tre parole chiave alla base dello scudetto dell’Inter: rivoluzione, algoritmo e pazienza. La rivoluzione è quella della scorsa estate che ha visto abbandonare gli armadietti di Appiano Gentile personaggi di peso e d’esperienza e reduci dalla finale di Champions (Onana, Handanovic, Skriniar, Gossens, D’ambrosio, Gagliardini, Brozovic, Correa, Lukaku e Dzeko) rimpiazzati da Sommer, Audero, Pavard, Frattesi, Carlos Augusto, Bisseck, Cuadrado, Buchanan, Klaassen, Thuram, Arnautovic e il cavallino di ritorno Alexis Sanchez. L’algoritmo (niente a che vedere con quelli usati per individuare obiettivi di mercato) è invece il sistema di calcio adottato da Inzaghi basato su una successione di istruzioni tecnico-tattiche, atte a perseguire un preciso risultato partendo da una consolidata base iniziale.
In pratica la partenza dal basso, poi sviluppata attraverso metodiche di gioco ripetute fino allo sfinimento alla Pinetina per arrivare a creare superiorità numerica sugli esterni, premessa indispensabile per poi concludere a rete. In soldoni: Simone Inzaghi ha cancellato quell’antico dogma secondo il quale gli schemi non esisterebbero. Da ciò si evince quanto fosse impresa da visionari riuscire a creare una macchina in grado di funzionare alla perfezione nonostante i tanti elementi nuovi inseriti nel meccanismo della stessa. Arrigo Sacchi, per spiegare le difficoltà incontrate dal Milan, ha spesso ripetuto quanto fosse stato problematico per Pioli far convivere i tanti stranieri arrivati in estate a Milanello. Bene, all’Inter ne sono arrivati ancora di più: 10 su 12, anche se alcuni di loro già sdoganati dal nostro campionato. Ovvio che poi conti la qualità dei pezzi di ricambio, e il lavoro dietro la scrivania di chi li ha individuati e ritenuti adatti a un progetto nel quale - a inizio stagione - ben pochi credevano. Il portiere era ritenuto un’incognita dopo gli exploit di Onana, e tale era pure Marcus Thuram, considerato all’unanimità un buon esterno di sinistra, ma non il bomber adatto a rimpiazzare Lukaku e Dzeko. Ma tra i pessimisti non c’era Simone Inzaghi. L’avevo incontrato in un ristorante di Milano Marittima, la sera prima della partenza per la tournée giapponese. Gli chiesi proprio di Lukaku, la cui decisione di non rientrare all’Inter era stata ufficializzata da pochi giorni. “Francamente non l’ho capito - rispose scuotendo il capo - ma penso che se ne pentirà.” Probabilmente sì, anche se a Roma ha ritrovato una dimensione adatta a lui.
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Ho parlato di rivoluzione, di algoritmi. Ma anche di pazienza. Che ha contraddistinto ogni partita dell’Inter. E’ la peculiarità di chi si sente forte, che gli consiglia di non andare allo sbaraglio, ma di palleggiare anche su ritmi blandi aspettando il momento buono per innescare i suoi assaltatori. Assaltatori di ruolo, ma non solo. L’innovazione (rivoluzione) inzaghiana ha spesso concesso ai difensori, Bastoni, Di Marco, Darmian, e anche Acerbi e Pavard, la possibilità di diventare attaccanti o rifinitori, sostituiti nelle loro posizioni di partenza dai centrocampisti o addirittura dagli attaccanti. Ma tutto ciò è solo un riassunto, il bignami, di un campionato dominato che regala all’Inter la seconda stella, 58 anni dopo la prima, che - curiosamente -era arrivata dopo lo stesso lasso di tempo dalla fondazione del club. Avvolgiamo il nastro: è il 15 maggio del 1966. L’Inter del Mago, di Mazzola, Suarez, Corso, dei 10 gol di Facchetti, batte la Lazio 4-1 a San Siro e già sulle bandiere campeggia il simbolo del decimo titolo. E’ storia di ieri. Oggi l’Inter celebra con orgoglio il vanto dei venti.