Il portiere avrebbe potuto lasciare la scorsa estate, al coreano toccava l'eredità di Koulibaly, mentre lo slovacco era atteso dal definitivo salto di qualità
di Alessandro Franchetti© Getty Images
L'anima dello scudetto, come in tutte le grandi squadre, è al centro, nell'equatore che ha scaldato per un campionato intero l'anno magico di Napoli. Osimhen a parte, perché davvero su di lui vale un discorso a sé, il resto della colonna vertebrale di Spalletti è tutto nato e cresciuto nella grande incertezza. Da Meret, vicino alla cessione appena qualche mese fa dopo un anno all'ombra di Ospina, fino a Lobotka, chiamato al definitivo salto di qualità in regia, passando per Kim, l'uomo chiamato, anche accompagnato da una maldestra diffidenza, a sostituire quel totem che era Koulibaly. Tre uomini cui andrebbe certamente aggiunto Anguissa, che hanno messo la propria firma su un titolo meraviglioso arrivato in fondo a una stagione in cui il Napoli ha saputo dominare un po' ovunque, dall'Italia alla Champions.
Per ciascuno di loro ci sarebbe una bella storia da raccontare. Meret, ad esempio, era forse considerato il punto debole della squadra. Un po' discontinuo, non sempre preciso, non proprio impeccabile nel gioco con i piedi. Ecco, lui è certamente l'uomo cresciuto maggiormente. In tutto. Fino a diventare uno dei punti di forza anche, e non solo, per l'inattesa capacità di avviare l'azione. Che i suoi palloni, poi, raggiungessero spesso i piedi di Lobotka non è certo un caso. Perché per un anno intero dare la palla allo slovacco era mettere tutto l'oro del mondo nel caveau più impenetrabile di una banca. Se la direttrice Meret-Kim-Lobotka è stata l'anima della squadra, lo slovacco è stato certamente il suo cuore pulsante, il giocatore che gestiva i palloni più difficili, dettava i tempi, muoveva i compagni. Lobotka era ovunque servisse: al limite della propria area a ricevere il passaggio del portiere, sulle fasce ad alleggerire il lavoro degli esterni in fase difensiva come in quella offensiva, a ridosso di punta e sottopunta per suggerire uno scarico o muovere il pallone da un lato all'altro del campo, davanti alla propria difesa per interdire. Talmente importante da essere insostituibile, talmente decisivo da essere seguito a uomo dal trequartista avversario.
E se Lobotka ha costruito, Kim ha distrutto. Sempre benissimo. Alzi la mano chi ha rimpianto, anche solo una volta, Koulibaly. Kim è stato una roccia, un muro invalicabile, il gemello perfetto di Rrahmani - altro giocatore che ha fatto una grande stagione -, l'ultimo, insuperabile, avamposto davanti a Meret. Non solo, perché il coreano ha dato spesso il suo contributo anche in fase di possesso, aggiungendosi ai centrocampisti per cercare, e trovare, la superiorità numerica in mezzo al campo. E' stato, è e sarà fondamentale, talmente bravo da aver attirato su di sé lo sguardo lungo di diversi club stranieri, Premier su tutti. Errori in stagione? Forse uno solo, quando per una protesta sguaiata si è preso l'ammonizione che gli ha fatto saltare il ritorno dei quarti di Champions contro il Milan. Già, come sarebbe andata se lui fosse stato in campo. In questa risposta che non avremo mai c'è l'unico rimpianto di una stagione da incorniciare.