L'uscita di scena del campione di Tavullia chiama il motociclismo ad una svolta epocale ricca di promesse e di incognite.
di Stefano Gatti
Nove titoli in tredici anni, in pratica la prima metà di una carriera il cui "girone di ritorno" è iniziato tutto in salita - imboccando al tempo stesso la fase... discendente - prima con lo sfortunato biennio alla Ducati, poi con l'irrompere sulla scena di Marc Marquez che ha impedito a Valentino di mettere a segno il decimo titolo, con il solo rimpianto del mancato "passaggio di consegne con Marco Simoncelli e prima ancora - come direbbe lo stesso Rossi - il gusto di una sfida che avrebbe arricchito la carriera di entrambi e regalato a tutti noi sfide indimenticabili.
Oltre che difficile se non impossibile da raccogliere, quella di Valentino Rossi è prima di tutto (e secondo noi) prima di tutto un'eredità mancata. Un passaggio di consegne come detto tra il "Dottore" ed il campione che aveva iniziato a ripercorrerne le tracce nella 250 e che - se non proprio lottando direttamente con lo stesso Valentino - avrebbe verosimilmente scritto pagine significative del motociclismo contemporaneo, magari prendendo dal nove volte iridato il testimone della sfida al "Cannibale" Marquez e lasciandolo qualche volta in più... a bocca asciutta.
È andata diversamente ma, tra nostalgie e terribili coincidenze, "Vale la pena" dare il giusto risalto a questo passaggio irrinunciabile della carriera del "Dottore". Così simili e così diversi, Rossi e Simoncelli: lo stesso talento, lo stesso spessore e la stessa leggerezza. Un'eredità mancata, forse la sola possibile che - nel giorno in cui Valentino chiude un capitolo per aprire un altro (anzi, più d'uno, secondo un vitalità inesauribile) - risulta impossibile caricare sulle spalle di altri senza gravarli di un peso esagerato, senza snaturarne il percorso. Perché proprio quest'ultimo - lasciando per un attimo il campo del tributo finale valenciano - è quanto (ancora una volta) "Vale la pena" sottolineare: Rossi resta inimitabile, lo è sempre stato, però tanti (troppi) hanno creduto di poterlo fare, di poterci provare. Lo hanno giustamente sognato, fino ad arrivare al Motomondiale: alla Moto3 ed alla Moto2, chi lo ha sognato... più forte è pure arrivato a lottare spalla a spalla con lui e magari a batterlo, in queste ultime stagioni. Ma l'asticella era comunque fissata troppo in alto: per imitarlo in pista, per copiarne gesti, riti, movenze, atteggiamenti, festeggiamenti. Scimmiottarlo insomma, anche se con le migliori intenzioni, perdendosi però il più delle volte per strada, all'inseguimento di un capobranco dall'incedere troppo lontano dal gruppo. È forse l'unico "torto" che Valentino ha riservato ad un mondo che prima del suo ingresso in scena era sconosciuto a mamme, nonne, fidanzate e che Vale ha largamente contribuito a "sdoganare", contemporaneamente scaldando (con la... maldigerita collaborazione dei "grandi di Spagna" Lorenzo, Marquez e pure Mir) il microclima di un paddock a lungo in buona sostanza anglosassone: con le sole eccezioni di Nicky Hayden e Casey Stoner.
La progressiva "devalentinizzazione" della MotoGP degli ultimi anni ha forse accompagnato il cambiamento ma - pensarci bene - la sensazione che resta è quella della sedia tolta da sotto il sedere mentre ti ci stai per accomodare sopra e di un vuoto che sarà davvero apprezzabile (nel senso di avvertibile) forse solo la via del primo GP della prossima stagione. Quando Valentino, invece che affacciarvisi solo per il via della Moto3, lo farà anche per quello della premier class. E senza nemmeno veder più sfrecciargli davanti una moto che lo ringrazia per tutto, come accaduto a Misano. Striscioni, bandiere, magliette e cappellini inneggianti a Valentino invece state tranquilli che continueranno - un po' malinconicamente - a colorare il paddock di Barcellona, Assen e Mugello. Stingeranno anche loro, prima o poi: però più dolcemente. Forse è tutto quel che serve.