Ha scritto fino all'ultimo
È un canto d’amore e di coraggio il libro autobiografico Tutto d’un pezzo a cui Mauro Bellugi ha lavorato fino all’ultimo e che esce ora per l’editore Libreria Pienogiorno.
Un racconto appassionato e sempre “allegro”, nonostante tutto, anche nel dolore, pure dalla stanza di quell’ospedale dove Mauro è entrato il 4 novembre 2020 per uscirne senza vita il 20 febbraio di quest’anno, dopo aver subito l’amputazione di entrambe le gambe a causa di un’infezione causata dal Covid e da una pregressa malattia autoimmune.
In una stanza d’ospedale, con la collaborazione di Andrea Mercurio, Bellugi ha scritto, senza deprimersi mai, senza lamentarsi mai, la sua dichiarazione d’amore per la vita e per il calcio, lui che ha calcato per 227 volte i campi della Serie A e ha indossato la maglia della nazionale in due Campionati del Mondo.
Per l’Inter, su tutto. «Mi sono trovato meravigliosamente bene a Bologna, la mia seconda casa sportiva, e ho ricambiato in ogni modo l’enorme affetto ricevuto dai tifosi, così come a Napoli e a Pistoia. Però si dice che nella vita solo due cose siano immutabili: la mamma e la squadra del cuore. Nel mio caso, se parliamo di calcio, sono la stessa figura. Ecco perché amo i colori nerazzurri, perché li ho amati dal primo momento. L’Inter è la famiglia in cui i fratelli maggiori sono d’esempio, uomini come Burgnich, Corso e Facchetti. Ti verrebbe da dire: uomini come non ce ne sono più, ma poi ne rivedi la discendenza in Javier Zanetti, o in Romelu Lukaku, un gigante di 94 chili di muscoli che, alla bisogna, sa portarsi sulle spalle tutta la squadra. L’Inter è il nero di una nube che si dissolve nell’azzurro di un cielo terso. L’Inter è speranza. L’Inter è domani».
Non era nato difensore, Mauro Bellugi. «Lo ero diventato perché a centrocampo, in quell’Inter in cui feci il mio esordio, c’era gente per cui persino uno come Messi avrebbe dovuto sudarsi il posto. Io ero una mezz’ala diventata terzino; una Jaguar su cui carichi la legna per il camino: non è fatta per quello, ma, se c’è bisogno, può servire egregiamente allo scopo. “Buttala via!” gridavano i compagni. Quante volte me lo sono sentito urlare. Sempre quelle due parole. Precedute o seguite da aggettivi poco lusinghieri. Ma io non volevo buttarla via. Io volevo costruire. E sono sempre stato così, uno di quelli che provano a gestire una situazione difficile che ti piove dal cielo, come un pallone in area di rigore».
Non ha mai perso il sorriso Bellugi, nemmeno nella sua partita più difficile, l’ultima, giocata come le altre a testa alta. Ad amputazione appena avvenuta, semi-incosciente, trova la forza per un’ ultima battuta: «Dottore, non butti via la gamba, magari posso usarla per giocarci a golf». Poi qualche giorno più tardi rimproverava scherzosamente i medici perché gli avevano tagliato anche quella del suo unico gol in maglia nerazzurra, nella storica partita contro il Borussia Monchengladbach in Coppa Campioni nel 1971.
Quanto ci manchi, Mauro. Tutto d’un pezzo, per sempre.